SALUTO A BANZI

    No, non pensate che il titolo sia errato, che la "A" dopo saluto sia di troppo: Banzi non è complemento oggetto, e saluto non indica la prima persona singolare, indicativo presente, del verbo salutare, bensì l'atto del salutare, in senso indeterminato, nelle sue varie espressioni, al mio paese.     
    E, se "dare il saluto", non aveva - e continua ad avere tuttora - che l'univoco, solenne significato di esprimere le condoglianze ai superstiti del defunto, talvolta accompagnate dal "conforto", ossia qualcosa da mangiare fatta loro arrivare discretamente per sollevarli dalla prostrazione che il lutto procura - quant'è pietoso questo gesto, che ho apprezzato personalmente in occasione della dipartita di mia madre e di mio suocero! -, invece il saluto fuori da quel contesto assume una valenza, una complessità, anzi una complicanza, particolari.
    Già avevo avuto l'opportunità di sperimentarlo andando a scuola, quando all'uscita bisognava salutare il maestro. Occorreva farlo in modo plateale in piazza, dopo aver sfilato ordinatamente, a doppia fila, composta dentro il corridoio, senza escludere tuttavia che nel tragitto ci si pestasse i talloni l'un l'altro, per cominciare a dare sfogo alla nostra libertà, ma anche per risentimento verso qualche compagno con cui si aveva avuto a che fare a scuola e col quale si cominciava, in quel modo, ad accendere le micce, a dichiarare le ostilità. Così, mentre il mio maestro, procedeva compiaciuto della sua squadra di scolari "soldati", fra di loro invece cominciavano già a volare calci, pugni e gomitate.
   Uno potrebbe domandarsi con quale criterio venissero composte le file e, se avendo fatto il militare invece non se lo chiede perché immagina che il criterio scontato fosse quello dell'altezza, sbaglia: il criterio dell'ordine applicato era quello della classe ... sociale: i posti anteriori erano riservati ai figli dell'avvocato, dell'addetto all'anagrafe, del messo comunale, del cantoniere, oltre che, ovviamente, a suo nipote.
    Anche nell'aula essi avevano avuti assegnati i primi posti, in fondo ad essa invece i figli dei pecorai e vaccari, i quali erano anche perlopiù ripetenti, sicché ci stavano bene lì  per la statura. In quel posto potevano stare relativamente tranquilli, perché non sentivano vicino addosso il fiato e lo sguardo del maestro, anche se egli non mancava, quando aveva bisogno di sgranchirsi un po' e gli prudessero le mani, di andare in missione da quelle parti e fare loro capire che, rispetto alle bestie tenute nelle proprie stalle od ovili, non intercorreva una grande differenza, e si potevano trattare allo stesso modo: all'epoca non c'erano associazioni a tutela degli animali che, indirettamente, potessero proteggere anche i loro piccoli padroni.
    Stare davanti non era comunque un privilegio, essendo sempre a cospetto del maestro ed il tempo non passava mai: ne avevo la riprova allorché chiedevo l'ora a suo nipote, uno dei pochi, se non l'unico, ad avere l'orologio: il tempo avanzava a minuti, non ad ore, soprattutto se avevi il terrore di essere interrogato. Ma accadeva che quando non ci pensavi più, invece, magicamente, sentivi una noccata di dita alla porta e vedevi affacciarsi il bidello Rocco che annunciava:  "don Pe' è ora".
    Ad onor del vero, che io ricordi bene, bisogna dare atto che il maestro non ci ha mai intrattenuti oltre l'orario, a differenza dell'ingresso, che a volte avveniva in ritardo, perché il nostro maestro andava al mattino presto in campagna, e non raramente faceva tardi a ritornare al paese. Noi aspettavamo speranzosi che non arrivasse, per fare ritorno a casa, ma ad un certo punto egli compariva con la sua moto Benelli e le nostre speranze di far festa naufragavano. Non saprei dire se in campagna andasse a coltivare solo la vigna, oppure continuasse a fare anche la carbonella, la cui attività, svolta a tempo pieno prima di fare il maestro, era valsa a fargli attribuire il soprannome di "Carbonella". Che lo facesse ancora o meno, ciò non toglieva che egli comunque si adontasse non poco quando si sentiva appellare con quel soprannome.
    La prova eloquente la fornì una volta a scuola, quando sentì quella parola da un mio compagno di classe, che innocentemente ed ingenuamente la pronunciò mentre gli riferiva discorsi fatti da altre persone: interruppe bruscamente quel rapporto confidenziale ed amichevole di conversazione, gli si avventò contro e gli suonò tanti di quei ceffoni da fargli vedere così tante stelle che nemmeno in una notte serena quel mio compagno sarà mai più riuscito a vedere. Povero Pacella!
    Ma, evitando di finire fuori tema col mio maestro, il quale meriterebbe un libro intero, e ritornando invece al saluto, giunta la classe in piazza, il caporalino figlio dell'avvocato, dopo un attenti e riposo e fianco sinistro (o forse destro) ci dava ordine di sciogliere le righe, non senza aver augurato al maestro che fosse buona - per lui anche - il resto della giornata.

    Quella scena mi è ritornata in mente in modo particolare nel maggio-giugno 1976 a Pesaro quando, al corso addestramento reclute, (CAR) bisognava urlare al momento dello scioglimento delle righe "Folgore!", ed un commilitone, preso dall'emozione, o forse anche imbranato e spossato, durante il giuramento, nell'alzare ed abbassare la mano, la infilò nella baioetta innestata nel fucile Gallant. Forse lui non era stato fortunato ad avere un maestro che lo avesse esercitato a quelle parate fin da piccolo, e ne pagò così le sonseguenze.
   Continuando a "passare in rassegna il saluto" (l'espressione mi viene suggerita ancora dalla scena del generale che passa in rassegna il corpo), prima di affrontare la disamina di alcuni suoi significati impegnativi, mi piace qui ricordare due manifestazioni di saluto il cui ricordo addolcisce il cuore. 
    La prima è quella delle nostre mamme quando passavano davanti al vicinato, di ritorno dal forno con la tavola in testa piena di pagnotte e focacce, oppure dalla vigna con la ceste piena di fichi ed uva: il saluto in questo caso si risolveva nell'invito a favorire a prendere qualcosa da mangiare ed allora l'espressione di saluto era (tradotto in italiano): "comare Severina vuoi prendere il pane caldo?". Ovviamente la risposta era sempre negativa: "grazie comare Giuseppina", la quale intanto procedeva avanti, dando per scontata la risposta negativa.
    La seconda la si udiva soprattutto durante le sere d'estate, quando ogni passante chiedeva a mio padre (questa volta mi riesce difficile la traduzione in italiano): "Cumpa' Lori' hamm fatt la 'mbrenn?". E mio padre: "ca' mo u ué". Se il saluto della comare era un mero gesto di ipocrita cortese generosità, attribuisco invece un significato del tutto diverso a quello esprimente l'interessamento se fosse stata fatta "la 'mbrenn" o meno, che trae origine evidentemente da tempi remoti, quando non sempre i nostri contadini, dopo una giornata di duro lavoro nei campi sotto il sole cocente, riuscivano ad avere il giusto ristoro alle loro fatiche. 

    Quindi fare "la 'mbrenn" significava soddisfare l'enorme fame e sete accumulate durante la lunga giornata di lavoro con una bella zuppa di pane ed acquasala nella "spasa", aggiunta di qualche goccia d'olio, origano, qualche spicchio d'aglio, pomodorini e peperoni piccanti. Che delizia! A rievocarla mi fa venire l'acquolina in bocca ... e le lacrime agli occhi. 
    Dopo quella parca cena, ecco tutti fuori sotto le stelle, radunati in gruppi davanti l'uno o l'altro uscio di casa, a godersi il fresco della sera. E le strade che brulicavano di persone, diventavano una festa per tutti, soprattutto per i bambini che le riempivano delle loro gioiose grida. Chiunque passasse, ovviamente, continuava a sincerarsi se fosse stata fatta "la 'mbrenn".
    C'era chi, però (maestri, carabinieri, farmacista...) tale saluto plebeo non era d'uso farlo e fra di essi Francesco Petraccone (don Cicc). Se, quando passava qualche persona comune, essa doveva pronunciare ad alta voce il suo saluto per essere sentita dai rumorosi gruppi in conversazione (il più chiassoso ed allegro nella mia via è sempre stato e continua ad essere quello della famiglia Rotunno), ed essere salutata a sua volta, non era così quando compariva don Cicc. 
    La mole della sua persona veniva subito notata e, se non fosse bastata quella, egli si faceva comunque notare tramite le sbracciate con le quali, come un monsignore, salutava a destra e manca, trattenendosi solo dal dare anche la benedizione. Giacché egli impersonava la banca più importante del paese e tutti potevano avere bisogno di lui, se già non avevano delle cambiali da onorare, veniva ovviamente temuto e riverito sicché, come veniva intravisto, preceduta da un bisbiglio, avveniva l'interruzione della conversazione, che non riprendeva finché non fosse passato e ricevuta da lui quella sorta di mancata benedizione, alla quale tutti rispondevano in coro, usando un tono di esclamazione appropriato alla qualità di maggiorente del personaggio, con un doppio "buona sera, buona sera don Cicc".
    Anche un altro banzese, successivamente - sicuramente  però senza alcuna intenzione emulativa, bensì per proprio stile naturale - ha avuto e continua ad avere un simile modo di saluto plateale. Egli ha peraltro il suo stesso nome Francesco, ma senza metamorfosi in "Cicc" e, stando alle consuetudini banzesi, sarebbe dovuto essere appellato anch'egli con il "don" davanti al suo nome, perché era ed è più di un maestro, è un professore, e non di quelli che lo diventano insegnando applicazioni tecniche in virtù di un semplice diploma - a Banzi ce ne sono due - bensì uno di quelli che si è fatto un mazzo prendendo la laurea, e perdipiù quella difficile in matematica.
   Tuttavia, chissà perché a Banzi il "don" è stato anteposto solo a qualcuno dal nome Pepp', Donato, Antonio (a scanso di equivoci preciso non essere il mio nome), Giovanni, Angelina, Giuseppina: qualcuno deve aver ritenuto che essendo arrivato il turno di Francesco Feo, si dovesse smettere con siffatta consuetudine, fatte salve le debite eccezioni.
    Una di queste, donna Giuseppina la voleva riservare ed imporre per suo fratello Alfredo, che è stato l'antesignano a Banzi dei professori di applicazioni tecniche, come potetti capire chiaramente in un'occasione che capitò direttamente a me. 
    Successe un giorno che, incaricato dal professore di educazione fisica, Orlando di Palazzo San Gervasio - dove frequentavo all'epoca ragioneria - di recapitare una lettera ad Alfredo Carcuro, consegnandola alla sorella Giuseppina e dicendo che quella lettera era per suo fratello Alfredo, fui aggredito in malo modo, ricevendo invettive da lei, sembrata trasformata in un attimo in un'arpia, perché non lo chiamai né professor Alfredo, né don Alfredo. Sbottò in mille esclamazioni. Qualcuna di esse suonava così: e chi è Alfredo un tuo collega? E cosa ti insegnano a scuola? E che educazione ti insegna tua madre? 
    Quando capii l'antifona, me ne allontanai, lasciandola continuare ad inveire. La sentii tuttavia ancora per una certa distanza e m'è rimasto il dubbio che quella lettera, per sfogare la sua tremenda collera, non l'abbia addirittura strappata. Comunque, non era mia intenzione mancare di rispetto ad Alfredo, lo chiamai semplicemente per il suo nome perché tutti lo chiamavano così. 
    La sorella, però, ammesso che avessi compiuto anche un peccato veniale, non ebbe nei miei confornti alcuna indulgenza, neppure ricordandosi quanto fossi rimasto vicino a suo figlio in prima media, quando tutti i compagni di scuola lo dileggiavano, al punto che dopo qualche mese, fu costretta a trasferirlo da Palazzo San Gervasio a Genzano di Lucania, mentre io dovetti recuperare a fatica il mio rapporto con i compagni di scuola.
    Ma, ritornando al professor Francesco Feo, commetterei una falsa testimonianza, se tralasciassi di dire che una persona c'era che io sentivo rivolgerglisi con l'appellativo di "don Francesco": "Mastron" davanti a casa mia. Oltre al merito di aver costruito la fontana che c'era in fondo alla via Garibaldi - successivamente demolita per costruirci sotto un deposito di fognatura - egli aveva anche quello di essere una persona che ragionava con la propria testa, libero da condizionamenti, sicché, giustamente e democraticamente, avrà arguito: ma se il don bisogna usarlo per un banale maestro, perché non attribuirlo ad un professore?
    Allora egli, imperterrito, senza alcuna ironia, non mancava mai,  di pronunciare il "Don Francesco" ogni volta che il professore vi passava davanti e che, a sua volta, non mancava mai di salutare "Mastron", ma anche qualunque altra persona, perché il professore Feo è una persona semplice, amabilissima, alla portata di tutti, rimasto tale anche quando è diventato Sindaco - a differenza di qualcuno baffuto, che si insuperbisce, e passandoti davanti a mezzo metro di distanza, tira diritto senza degnarti di uno sguardo o di una parola, limitandosi solo ad emettere uno sbuffo di fumo -, una persona che io saluto sempre con grande piacere e con la quale converso più che volentieri.
   Io poi sono venuto via da Banzi nel 1971 e non ho più notizie su come si sia evoluta la consuetudine al riguardo. Quando vi ritorno non ho più l'opportunità di sentire Mastron, che oramai da tanti anni non è più a Banzi, e non so neppure se continua a vivere ancora a Genzano di Lucania (intendo però  in futuro soffermarmi più a lungo su questa persona). 
    Tuttavia, quando sento conversare le persone a Banzi, capto che chi, meritatamente o meno, aveva conquistato il titolo distintivo del "don", se l'è conservato e che non se ne sono aggiunti altri. Ignoro, tuttavia se la tale donna Giuseppina abbia tentato di farlo attribuire a suo figlio - rimpatriato a Banzi da Milano - per il quale, se forse non lo poteva rivendicare per essere egli un impiegato di banca - a Banzi non è l'unico - lo abbia preteso per insigni meriti acquisiti, in particolare perché qualche estate fa ha ricoperto il ruolo di Papa in occasione di una sfilata rievocativa di una visita papale avvenuta secoli addietro: se non mi sbaglio "don Carlo" non lo chiama ancora nessuno e starò attento a non commettere un errore all'incontrario, correndo il rischio di dover avere ancora a che fare con sua mamma!