IN VIA GARIBALDI

    Se dovessi pensare ad un romanzo da scrivere, sarebbe sufficiente mettere insieme anche solo una parte delle cose viste ed accadute nella strada del mio paese, dove sono nato e vissuto per venti anni.

    Se qualche volta volessi avere un'idea un po' concreta di ciò che possa significare la parola universo, più che pensare all'insieme sterminato dei corpi celesti nello spazio, è la mia strada che mi viene in mente, sì proprio via Garibaldi di Banzi, con le tante facce che mi evoca, la sua animazione, le sue voci, i suoi rumori, i versi dei passeri e delle rondini, il garrire dei panni al vento, la sua luce, il buio della notte, l'infinita gamma dei sentimenti di gioia, felicità, tristezza e dolore che mi ha suscitato e continua a suscitarmi.

    Quanto era essa lunga con tutte le sue case in fila le une di fronte alle altre, che vi si affacciavano per starle strette intorno, quasi a manifestarle protezione ed affetto! E quanti esseri viventi la popolavano, persone ed animali! Era tutta un brulicare, un fermento continuo!

    La sua animazione cominciava all'alba, oltre che con le grida dei galli che si richiamavano l'un l'altro di casa in casa, con la scalpiccio dei tanti animali che vi transitavano, greggi, cavalli, muli, somari, il loro belare e scampanellare, il ruotare dei traini e l'attraversamento dell'unico veicolo motorizzato della giornata, la corriera della Sita che andava a Potenza alle sei di mattino.

    Tutti quei rumori giungevano ovattati alle orecchie perché la strada era ancora sterrata, sicché più che disturbare il sonno, servivano essi come sottofondo per far continuare a dormire, costituendo una sorta di elementi che davano tranquillità alla mia psiche, dal momento che si ripetevano con una scansione stabile e certa. Ancora più tranquillità mi davano poi i colpi ritmati del maglio provenienti dalla vicina officina di Rocco Giacomino e la "musica" che emetteva la smerigliatrice sui vomeri, nonché il martello, quando, nelle pause per colpire e forgiare il tenero pezzo di ferro arroventato, saltellava sull'incudine.

    Poi ecco le galline comparire a razzolare per le strade. Prima di concedere loro la libertà, mia madre le prendeva ad una ad una e le sottoponeva ad una specie di visita per sincerarsi che non avessero ancora l'uovo da fare. Infatti, se qualcuna di esse era un po' ritardataria, rimaneva ancora dentro, perché non le si poteva mica concedere il lusso di andarlo a mollare in giro, perdendo così quella preziosa fonte di reddito, che consentiva di poter ricavare l'occorrente per comperare tabacco e cartine per il "prioritario" bisogno di fumo di mio padre.

    Si dava il caso però che spesso mia madre andasse in campagna molto presto e che io rimanessi in casa da solo con la mia sorellina. Allora, cercando d'intuire ciò che vedevo fare a mia madre, afferravo anch'io le galline ad una ad una e col dito medio le esploravo per vedere chi di esse non avesse fatto ancora l'uovo. Tale operazione di verifica però non era sempre necessaria, perché perlopiù tutte le galline assolvevano con puntualità al loro dovere nei nostri confronti, in cambio del vitto e dell'alloggio che offrivamo loro, anche se poi il mangiare se lo andavano soprattutto a procurare da sole andando a ruspare qua e là in giro.

    Arrivava però il tempo che qualche gallina le sue uova voleva tenersele per sé, perché era giunto il momento della cova, ed allora essa rinunciava alla sua libertà, rimanendo rinchiusa segregata in casa a scaldarle per compiere il miracolo della vita: quanta dolcezza e tenerezza mi suscita ancora tale ricordo!

    Poi arrivava il momento fatidico della schiusa. Avvenendo essa durante l'estate quando la scuola era chiusa e mia madre era ogni giorno in campagna, io vi assistevo con discrezione e premura, vedendo fuoriuscire tutti i pulcini ed intervenendo talvolta ad aprire completamente il guscio con la massima delicatezza per evitare qualunque trauma a quei piccoli esserini, che subito zampettavano fuori, felici anche loro di venire al mondo, ignari del destino che sarebbe spettato.

    Ma, intanto c'era la mamma chioccia a proteggerli e ad insegnare loro a beccare la zuppa che io avevo preparato come primo nutrimento. Data la mia collaborazione, la chioccia non aveva timore di me e mi faceva condividere da vicino la gioia di vedere ed accarezzare le sue creature senza che si arruffasse in segno di minaccia.

    Viceversa invece, la gatta doveva tenersi a debita distanza di sicurezza, perché di lei non si fidava. Ma sono sicuro che neppure la gatta avrebbe osato fare loro neppure un graffio perché in "famiglia" ci si rispettava ed amava tutti,  persone ed animali: maiale, gatta, conigli e galline. L'unica cosa che veniva ammessa era poter fare qualche assaggio quando qualcuno di essi veniva sacrificato per il bene comune. Così la gatta poteva rosicchiare qualche osso di maiale, coniglio o gallina ed anche le galline potevano beccare qualcosa degli altri conviventi quando si ammazzava ad esempio un coniglio od il maiale.

(CONTINUA)

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