CICCILLON

    Che ricordi bene, a Banzi, una decina di persone portavano e portano il nome di Ciccill, diminutivo di Francesco. A dire il vero nel passato potrebbe essercene stata anche un'undicesima, il mio bisnonno, che si chiamava anch'egli Francesco; ma non so se, comunemente, lo appellassero col diminutivo o meno. E non è di aiuto neppure una verifica sul nome portato dai suoi discendenti  - almeno quelli della linea di mio nonno - perché, purtroppo, tale nome è scomparso per via del fatto che il primogenito del suo primo figlio, emigrato in America all'inizio degli anni '90, non ha lasciato alcuna prole, sicché la catena si è interrotta. Ad aver conosciuto prima il nome del mio bisnonno, lo avrei ripristinato volentieri io col mio terzo figlio, chiamandolo però semplicemente Francesco. Ma ormai questi si chiama Stefano e non è più possibile cambiargli identità, anche se lo fosse anagraficamente.

    Di tutti i Ciccill, ce n'è però uno che, violando forse le regole della grammatica, fa cozzare nel suo nome, ma senza farsi troppo male, il diminutivo e l'accrescitivo: Ciccillon! E di tutti i Ciccill - non se ne abbiano a male gli altri - quasi certamente egli rimarrà il più impresso nella memoria di tanti. 

    Sicuramente lo rimarrà impresso in quella mia, non tanto perché quando Edoardo Vianello cantava "I vatussi" la mia immaginazione correva verso di lui - perché aveva un'altezza ragguardevole - quanto per la peculiarità del lavoro che faceva, il quale comportava la sospensione dei nostri giochi quando era in corso. Bastava, infatti, che apparisse all'imbocco della via Garibaldi, che chi di noi ragazzi vedesse per primo la sua mole stagliarsi in fondo alla strada, non esitava un attimo ad esclamare: - Ciccillon! Ed era un fuggi fuggi generale, un andare a rinchiudersi in casa, le cui porte, normalmente sempre aperte - fatta eccezione per il periodo invernale - venivano serrate al suo passaggio, fosse anche periodo di solleone. 

    Non tutte però. Alcune invece si spalancavano al suonare del suo corno, seguito immediatamente dalla comparsa in strada delle signore del vicinato che esibivano, come un trofeo, in testa un lungo vaso cilindrico di terracotta, denominato "u' pris". Vi si accostavano cautamente alla cisterna -"la vott" - trascinata dal mulo e vi versavano dentro la preziosa essenza della famiglia: piscia e merda.

    Appena lo scalpiccio del mulo faceva capire che Ciccillon era passato, riuscivamo immediatamente in strada: le esalazioni maleodoranti finivano subito perchè il vento, che soffiava quasi costante verso la piazza, le spazzava via in fretta. Lo stesso Ciccillon l'aveva ormai sperimentato e rimaneva sempre sopra vento, non sentendo praticamente alcun cattivo odore. Non mi ricordo però se anche la moglie di Ciccillon, abitante anche lei in via Garibaldi, adempisse al rito dello svuotamento del "pris" o meno. Se lo faceva, non doveva essere però molto pieno, perchè io ho sempre visto tutta la schiera delle loro figlie fare i bisogni in strada, precisamente sul marciapiede di fronte alla loro abitazione. Lì v'era un palo della luce e le loro bambine si accovacciavano intorno disseminandolo delle loro ciambelline, focaccine o castelletti, a seconda di cosa avessero mangiato.
        
    Quando vi passavo, mi era arcinota la zona del pericolo e con qualche slalom riuscivo ad evitarle tutte. Forse tante persone, per non far tracimare subito "u' pris", facevano i loro bisogni fuori di casa. Una volta ciò era possibile grazie anche all'assenza di illuminazione elettrica nelle strade: bastava voltare l'angola della propria casa e, ... ops era fatta. Qualcuno ha continuato però a farlo anche in seguito, quando in tutte le case erano arrivati i cessi: perché era più bello farla all'aperto in campagna, accoccolati in un campo, in mezzo al grano o in una vigna. Una persona che conoscevo bene perchè abitava nella mia stessa via, era costretta invece ad andarla a fare in campagna, perché in famiglia (tutte donne) non sopportavano l'odore dei suoi escrementi. Allora, siccome io dopo pranzo ero solito fare le mie passeggiate per la strada verso Genzano, spesso lo vedevo piegato alla seconda curva al riparo di uno scoscendimento: non mi era mai capitato di avvertire alcun particolare cattivo odore esalare nelle vicinanze. Però mi disgustava vedere all'improvviso quel culo nudo con qualcosa di pendente.

    Poi ad un certo punto la "vott" non è più transitata per le strade, le figlie di Ciccillon sono diventate grandi, il palo della luce è stato espiantato. In quel punto del marciapiede però continuano ancora a spuntare ed a crescere floride piantine varie grazie alle abbondanti concimazioni organiche infiltratesi ed accumulatesi nel corso degli anni tra gli interstizi dei blocchi del marciapiede.
 
    Il caso ha voluto che fossi partecipe anche del lieto evento della prima figlia di Ciccillon. Infatti, quando si è sposata, io suonavo la chitarra basso nel complesso - non mi ricordo se si chiamasse ancora "Le Anime" o "The White Sols"- che ha allietato la cerimonia ed ho vivo il ricordo di quando la sposa, facendo ingresso nella sala da ballo di mio cognato Gigino Tafaro, è stata salutata da tutti gli intervenuti e si è commossa mentre si è abbracciata con la sorella più prossima d'età, in lacrime anche lei. Mi sono allora commosso anch'io e non so se ho sbagliato qualche nota nell'esecuzione della marcia trionfale di Felix Mendelhson Bartoldi, tratta dal "Sogno d'una notte di mezz'estate".

    Ora, non posso non confessare che quando ritorno a Banzi, rincasando alla sera tardi, piace anche a me andare a fare l'ultimo bisognino verso la seconda curva. Non so se la ragione vera è di evitare di fare rumore in casa oppure perché attratto da quel modo primitivo di fare il bisogno. Certamente è un momento piacevole, perché oltre al soddisfacimento del bisogno fisiologico, intanto ascolto il trillare dei grilli, guardo le stelle, odo giungere da lontano i versi dei latrati dei cani, mi lascio prendere ancora un po' da  quella vaga paura della notte e, tanto, dall'arcano della vita.

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