I  PANAR

   Quando - come in questo momento - mi vengono in mente i panar, due ricordi mi affiorano, correlati al doppio significato che tale termine aveva al mio paese.
    Il primo indicava un piccolo contenitore fatto di vimini e striscette di canne, di forma bombata e con un manico a semicerchio alle due estremità, usato per trasportare modeste quantità di frutta raccolta nella propria vigna, oppure le vivande che si consumavano in campagna: pane e companatico, un pezzo di formaggio, o dei peperoni fritti, una bottiglia di vino. U' panar si usava anche per andare a fare il lunedì di pasqua in campagna, trasportandovi per l'occasione le classiche uova sode.
    All'epoca le uova si mangiavano così soltanto il lunedì di pasqua, le poche altre volte che si consumavano, le si facevano fritte, oppure a frittata. Di uova ognuno ne aveva in casa, perché ognuno in casa aveva le galline, solo che esse erano destinate prevalentemente ad essere vendute, per ricavare un po' di soldi da utilizzare per il soddisfacimento di altri bisogni impellenti: per esempio, per comperare il tabacco e le cartine per il fumo dei nostri padri, i quali tutti, rigorosamente, dovevano fumare.
    Quante volte poi mio padre, quando dopo quarant'anni aveva smesso di fumare, per far capire quanto fosse assurdo ed idiota questo vizio, adduceva proprio questo esempio: le uova delle galline, invece di essere destinate al nostro nutrimento, finivano in fumo, nel vero senso della parola. Meno male che, comunque, siamo riusciti a sopravvivere tutti ed a non morire di fame. Però, una bella frittata in più quanto ci avrebbe fatti felici!
    Talvolta, raramente, le uova le si facevano bere al mattino crude ai bambini. Ciò accadeva soprattutto nelle famiglie benestanti, venendo usate come una sorta di ricostituente. Finiva però che le mamme, come una volta una mia dirimpettaia, esageravano e che le uova invece di produrre effetti positivi, causavano intossicazioni al fegato. Anche una mia sorella ho visto dargliele da bere ad uno dei figli che mangiava poco. Gli faceva il buchino nel guscio ed egli ne suggeva il contenuto con gusto, piano piano.
    Questo mio nipote forse era l'unico alimento che assumeva con tranquillità, perché passava direttamente dal contenitore alla sua bocca, senza perciò il rischio di contaminazioni esterne. Egli, infatti, aveva la fobia dello sporco: se c'era qualcosa che venisse toccata da altri, non la mangiava più. Aveva finanche le sue posate personali, alla cui pulizia provvedeva direttamente egli stesso. Pensate che tragedia successe allora quando venne a sapere che l'uovo usciva niente di meno che dal buco del culo della gallina: forse le uova, anche adesso che è diventato padre, continueranno a fargli schifo.
    Ma, dopo questa breve digressione sulle uova, e ritornando invece a u' panar, c'è da dire che quando i commensali erano numerosi, esso non era più sufficiente e bisognava fare ricorso alla ceste, che veniva trasporta sul carro, oppure dalle nostre mamme sulla testa, frapponendovi,  per  ammorbidirne il peso, una specie di ciambella di stoffa, realizzata con qualche vecchio grembiule che veniva attorcigliato ad arte. Ciò accadeva, per esempio, quando bisognava portare da mangiare agli zappatori, oppure ai mietitori e, quando si trattava di questi ultimi, la ceste diventava molto pesante, perché essi avevano molta fame e moltissima sete, giacché dovevano lavorare indefessamente dall'alba al tramonto sotto il sole. Non per nulla, quando capitava di avere una fame od una sete particolari e non ci si saziava o dissetava mai, le nostre mamme sbottavano in un'interrogativa domanda: - ma sei stato a mietere oggi?

    C'era poi un secondo significato che si attribuiva al termine panar, di natura eufemistica ed ironica: indicava quella specie di contenitore immaginario col quale si portava a qualcuno qualche sgradevole notizia, in particolare il rifiuto di qualche proposta di matrimonio.
    Mia sorella Filomena ne fece portare più di qualcuno, avvalendosi della preziosa collaborazione della zia Maria Giovanna, che aveva una particolare vocazione ad eseguire questi compiti, ingrati ed incresciosi ai più, per i quali occorreva tatto e diplomazia, trattandosi  di un'ambasciata davvero difficile e delicata, che bisognava dare con le dovute maniere, usando le parole con discernimento ed il giusto garbo, per evitare che si ferisse l'onore, sia dell'aspirante sposo, che dell'intera famiglia.
    Più di qualche volta, infatti, è accaduto che l'aspirante sposo, previo preliminare consenso, venisse in casa con suo padre per la presentazione ufficiale e che, dopo manifestazioni di stima reciproca da parte dei rispettivi potenziali consuoceri, dopo una serata di conversazione ed intrattenimento con bicchierate di vino - quello buono riservato per le occasioni importanti -, mia sorella facesse dietro front, trovando ora un pretesto, ora un altro per dire che non le piaceva la persona propostasi come futuro marito.
    Mio padre ne rimaneva allora costernato. Prima di tutto perché vedeva naufragare l'aspettativa di scrollarsi di dosso una figlia, diminuendo le bocche da sfamare, giacché la nostra famiglia era numerosa con i suoi cinque figli; poi perché provava un grandissimo disagio ed imbarazzo nei confronti del padre dell'aspirante sposo. 
    Ma, nonostante tutti i discorsi per convincerla ad accettare la proposta di matrimonio (vai a stare bene, ha le mucche, ha tanti terreni, è di buona famiglia, è un ragazzo serio, è bello giovane e robusto e tante altre argomentazioni simili), mia sorella rimaneva trincerata, chiusa a riccio nel suo muto rifiuto, col fazzoletto in mano, gli occhi rossi per quanto se li strofinasse per pulirsi le lacrime. Mio padre, allora, che non poteva arrivare a coartarle la volontà, abdicava rassegnato, ancora una volta. 
    Il mattino dopo, sconsolato ed avvilito,  se ne andava più presto del solito, a sfogare la sua delusione in campagna, mentre più tardi veniva convocata da mia madre la zia Maria Giovanna per svolgere, ancora una volta, il compito di portare u' panar alla famiglia dell'aspirante sposo, con dentro l'incresciosa ambasciata.
     Gli occhi della zia brillavano allora un po' di più, per l'esaltazione che provava per tale importante missione, ed anche perché essa in seguito le sarebbe fruttata chissà quanti servizi da parte di mia sorella per pagare il suo debito di riconoscenza.
    Arrivò, tuttavia, il momento in cui questa mia zia non ebbe più panar da portare, almeno per conto di mia sorella, perché infine, non so se ad un certo punto fu presa dalla paura di rimanere zitella, lei trovò qualcuno che, se non proprio il suo principe azzurro, non la scoraggiò completamente dal diventare sua moglie.
    L'intesa, in assenza di mio padre che si trovava gastarbeiter in Germania, la raggiunsero mio nonno materno ed il nonno paterno del mio futuro cognato, giacché anch'egli aveva suo padre lì gastarbaiter.
    Successe, però, che mio zio Rocco, il marito dell'ambasciatrice Maria Giovanna, se ne adontò, perché si sentì scavalcato nel ruolo di datore del consenso, ritenendo di dover fare egli le veci di mio padre. Ma questa volta mia sorella si convinse di fidanzarsi veramente e poi celebrò anche il matrimonio, avendone quattro figli.
     Se con suo marito sia vissuta fin qui, e vivrà ancora in futuro, felice e contenta, oppure rimpianga di aver fatto portare qualche panar di troppo alla zia Maria Giovanna, non sono autorizzato a dirlo. Se siete curiosi di saperlo, dovete andare a chiederlo direttamente all'interessata, la quale, invece, se vuole, è autorizzata ad aggiungere anche qualche altro dettaglio a questo racconto, o addirittura averne di nuovi da raccontare riguardo a ciò che è successo poi nei trent'anni di matrimonio.  
    Una cosa è certa: di non poter carpire alcuna indiscrezione neppure all'ambasciatrice Maria Giovanna che, se ancora si presta per tali difficili missioni, lo può fare soltanto altrove, un posto irraggiungibile da Banzi e da qualunque altra parte di questo mondo.

24 gennaio 2006