LA GUARDIA AGLI SPOSI

    Di recente mi si è presentato il caso di conoscere Michele Feo, una persona che ha avuto i natali a Banzi, ora residente a Pisa, docente di Filologia medievale ed umanistica all’Università di Firenze.
    L’occasione è stata propiziata da una conversazione telefonica con la mia comare Antonietta Palermo, nel corso della quale mi legge una lettera che il professor Feo aveva inviato a suo marito, il mio compare Michele Rigato, in relazione alla pubblicazione del suo libro “E così fu”, esortandomi poi la stessa a mettermi in contatto con l’illustre accademico.
    Io non sono facile alle telefonate, tanto più a persone sconosciute ed importanti, come si trattava nel caso di specie, tuttavia, anche per togliermi dall’imbarazzo che avrei avuto, quando successivamente la mia comare mi avesse chiesto se gli avevo telefonato, ed avrei dovuto risponderle di no, mi sono fatto coraggio, forse anche audace, e le ho “obbedito”.
    Quella sera mi ha risposto da Pisa il Professore personalmente e, forse con un po’ di balbettio, riesco a fargli capire in qualche modo chi era colui che lo stava importunando ed il motivo, anzi il pretesto.
    Rimango sorpreso della sua gentilezza e disponibilità, concludendo la breve chiacchierata telefonica, con la promessa, da parte sua, di trasmettermi sia la lettera inviata al mio compare, sia una sua pubblicazione riguardante una ricerca per ragioni di studio da egli fatta, avente come oggetto un’usanza vigente nel passato nei nostri paesi: fare “la guardia agli sposi” la notte successiva alle loro nozze.
    La telefonata intercorre verso le nove di sera e, prima di andare a dormire, dando un’occhiata alla posta elettronica, vedo che egli mi aveva già inviato un messaggio, con allegata la lettera; e, dopo qualche giorno, via posta ordinaria, mi giunge anche la rivista quadrimestrale di studi demoetnoantropologici LARES – Anno LXIX n. 1 Gennaio-Aprile 2003.
    Non poca è stata la gioia di poter leggere sia l’uno che l’altro documento.
    In riferimento a quest’ultimo, trattasi di 23 pagine scarse, che si leggono - almeno così ho fatto io – come un fresco bicchiere d’acqua in estate, tutte d’un sorso.
    Se per me il pretesto di imbattermi in lui è stato la telefonata succitata, quello che invece ha mosso il professor Feo ad indagare sulle tradizioni passate del mondo contadino, è stato una mera questione filologica: chiarire se nel verso 13 della composizione poetica latina EB 36, contenuta in una silloge conservata in un codice del monastero di San Colombiano a Bobbio, denominata appunto “Epigrammata Bobiensia”, fosse da ritenere giusta la parola “aviam” (nonna), oppure se stesse meglio quella spuria, effettuata con manipolazioni successive, di “Famulam” (ancella, serva).
    Non rimanendo convinto della bontà dell’interpretazione accolta infine dal classicista Scevola Mariotti, di intendere appropriato il termine “famulam”, scartando pertanto sia “aviam”, sia le altre due ipotesi - pure affacciatesi - di “animam” (anima) e “Triviam” (Diana, dea della castità), Feo, in quanto “meridionale curioso di tradizioni popolari”, incaricato e stimolato da tale suo amico e collega, ha voluto cimentarsi in un’indagine sulle tradizioni del passato, per trovare elementi che corroborassero il proprio parere che, in quel tormentato verso 13, la parola giusta potesse essere invece “aviam”.
    Cosa fa egli allora? Si reca a Banzi, suo paese d’origine, Genzano di Lucania e Gravina di Puglia ad intervistare alcune anziane persone del posto circa l’usanza della guardia agli sposi fatta nel passato durante la prima notte di nozze, per accertare se ci giocasse un qualche ruolo la nonna della sposa; ma dalle loro concordi dichiarazioni viene esclusa categoricamente la sua presenza, non riuscendo pertanto egli a procurarsi alcun elemento od indizio utile per giustificare la presenza della nonna nel sogno di quella specie di Penelope, tradotto in poesia.
    Ciò anche se alla fine scopre un caso occorso a Banzi, in cui a fare la guardia agli sposi è stata la nonna della sposa: ma si trattava di una nonna fattucchiera e “nottambula” che “non aveva paura manco dei diavoli”, e la guardia era fatta per finalità inconsuete, sicché tale unica eccezione non poteva valere, pertanto, che a confermare la regola dell’assenza della nonna nell’usanza di cui trattasi.
    L’indagine del Feo aveva una valenza accademica, e viene pertanto pubblicata in una rivista la cui circolazione è destinata a rimanere circoscritta all’ambito universitario delle scienze umanistiche.
    Tuttavia, io vi ho colto qualcosa che merita di essere divulgato anche fuori da tale ambito, perché è molto godibile da leggere, e sicuramente susciterà ricordi ed emozioni in tanti lettori, quando si ritroveranno di fronte alle conversazioni avute dal professore con i nostri vecchi di Banzi, attraverso le quali è riuscito a fare un ampio squarcio nelle tradizioni del nostro passato, ed a renderci nitido, grazie alla cadenza espressiva arguta ed efficace degli intervistati, alle loro colorite espressioni dialettali, un mondo contadino estinto, dove circolavano una volta fattucchiere, masciare e belle donne; dove uno sposo va in bianco la prima notte a causa di una fattura che gli ha legato il sangue; dove i parenti degli sposi stazionavano di guardia nei paraggi della loro abitazione armati di “paroccole” per evitare che curiosi filibustieri andassero “ad annusilare dal buco della mascatura”,  facessero scherzi mediante apposizione di mazze in croce dietro la porta  per impedirne l’apertura l’indomani, oppure “stridi” con rovesciamento del contenuto di “cantari”, o semplicemente disturbassero la loro tranquillità, indispensabile per consumare il matrimonio, giacché essi erano entrambi vergini e, per la prima volta, “l’uomo si trovava una donna a sua disposizione e non sapeva dove mettere le mani”; dove viene perpetrato un fratricidio perché la cognata dello sposo si è occultata per spiare quel che succedeva durante la prima notte e, scoprendo che la sposa non era vergine, lo ha propalato in giro, suscitando le ire del cognato, il quale, avendo visto rovinato il proprio onore, si è vendicato distruggendo anche la famiglia di suo fratello, con la sua uccisione.
    Il professore Feo, nel concedermi l’autorizzazione ad inserire in questo sito alcune pagine - per me più belle e significative - de “La guardia agli sposi”,  mi ha manifestato il timore “che i bantini coinvolti non abbiano a sentire come lesiva della riservatezza una diffusione più ampia” del suo lavoro.
    Ma le testimonianze di ricordi che egli ha raccolto nella sua pubblicazione, dove - questa volta senza necessità di guardia - fa sposare felicemente il dotto latino con la parlata banzese, non possono rimanere segregate in qualche scaffale universitario, a disposizione solo di qualche studioso, che imbattendosi sul quale fra qualche secolo - come è successo col codice rinvenuto nel monastero di San Colombano di Bobbio – abbia semplicemente a chiedersi ancora se il filologo-umanista Feo sia riuscito ad acclarare definitivamente quale debba essere la parola finale del verso 13 della composizione poetica latina EB 36 della “Epigrammata Bobiensia” - “famulam”, “aviam”, “animam” o “Triviam” - e che si riprometta caso mai di effettuare anch’egli ulteriori indagini, perché non ci sarebbe più nessuno a poterglielo testimoniare; e, anche se ciò fosse possibile, il pudore e la riservatezza forse impedirebbero di ottenere a quello sconosciuto le confessioni che invece Feo è riuscito ad ottenere, per essere egli considerato ancora un banzese, meritevole di stima ed affetto.
    Prima di riportare alcune pagine de “La guardia agli sposi” del Feo, vorrei aggiungere però qualche mia riflessione sull’argomento.
    Intanto (facendo il presuntuoso) sotto il profilo filologico, in ordine al quale, pur senza poter vantare alcuno studio classico, ritengo più  indicato e verosimile nel verso della poesia il termine “famulam”, per la semplice considerazione che quella poesia non poteva essere scritta da una persona appartenente ad una famiglia plebea, e, pertanto, la Penelope che ha fatto il sogno, in quanto parte di una famiglia di ceto sociale elevato, sarà stata circondata da serve e schiave, pronte ad intervenire in suo soccorso ... anche in una composizione poetica.
    Sotto il profilo, invece, sociale, osservo che, se è sicuramente attendibile che la sposa, prima di andare a nozze, possa aver avuto a che fare con una nonna (materna o paterna che fosse), dormendoci caso mai anche nello stesso letto (forse malvolentieri, per il cattivo odore che una vecchia poteva emanare dall’alito e dal corpo, che non veniva mai lavato, per l’assenza di docce e vasche, oltre che per la stessa poca disponibilità d’acqua, che occorreva andare ad attingere alle fontane pubbliche), perché stanze e letti un tempo erano decisamente scarsi, essa non ci sarebbe entrata più niente con la nipote dopo il matrimonio, anche in considerazione che i vecchi vanno a letto presto, e non avrebbe potuto certo stare sveglia fino all’alba.
    Per quanto attiene poi al significato della “guardia agli sposi”, sembra quasi di cogliere in Feo una vaga ombra di delusione nell’accertare che non sia stata finalizzata a tutelare la sposa da possibili violenze del novello marito, accertamento che forse costituiva per lui un obiettivo collaterale dell’indagine.
    Due delle donne intervistate, come avessero intuito ciò, stavano per assecondare il raggiungimento di quest’ulteriore scopo dissimulato della ricerca, laddove a domanda se la guardia avesse “lo scopo di proteggere la donna, ambedue ... rispondono di sì, sicurissime di sì”; ma poi alla successiva domanda, se essa serviva a “proteggere dunque la sposa dallo sposo”, si rimangiano quello che avevano detto prima e rispondono invece: - “No! Era una protezione del matrimonio, dell’onore; e poi ancora a domanda se si potesse “ipotizzare un marito violento”, le stesse rispondono: - “No, no! C’era solo, nella prima notte, il timore del primo incontro”.
    Da tutti gli intervistati é stato posto molto l’accento sulla finalità preventiva di scherzi e “stridi” agli sposi avuta dalla guardia, oltre che della tutela della loro riservatezza. Solo Angela Rigato, ha colto un altro aspetto della guardia, quando alla domanda “Perché stavano dietro alla porta?”, risponde: “La gioia, la gioia che erano sposati”.
    Ebbene, io ritengo ciò probabilmente uno dei motivi essenziali della guardia agli sposi, che costituiva sicuramente anche una sorta di appendice al festeggiamento nuziale, fatta da parenti, amici e compari con serenate e suonate di fisarmoniche, un modo di onorare ancora gli sposi, facendogli continuare a sentire nelle vicinanze della loro abitazione la propria presenza, che voleva significare condivisione della loro felicità in questo giorno memorabile della loro vita.
    E’ in tal senso che va inteso anche il saluto ricevuto dalla “zita” Maria Nicola, da parte della vicina Zia Vincenzella, la quale - a guardia evidentemente finita - bussa alla porta esclamando: - “Iè fatte iurne”,  per annunciare, un po’ come l’allodola a Romeo e Giulietta, l’alba della loro prima notte d’amore, forse dopo aver trascorso anche lei - provando una certa invidia - diverse ore insonni a ricordare quella sua.
    Poi, penso che vada sfatato il luogo comune, che accredita alla sposa il ruolo della ignara ed indifesa verginella esposta alla brutalità del marito, che la prima notte di matrimonio la sottoporrebbe a sevizie, violenze e stupri: ciò per diverse ragioni.
    In primo luogo perché ritengo che al matrimonio, anche nel passato, si addiveniva per iniziativa e sollecitazione degli interessati futuri coniugi, in quanto innamorati l’uno dell’altro, e la contrattazione fra le famiglie è da ritenere un fatto più che altro formale, che non prescindeva comunque dal consenso dei ragazzi, essendo rari i matrimoni imposti con la coercizione.
    Pertanto non c’era motivo, fra due persone che si amano, di aspettarsi violenze e, se impaccio ed apprensione c’era, essi non è detto che non fossero sentiti in uguale intensità dall’una e dall’altro, anzi forse più dallo sposo, che doveva essere parte più attiva e dimostrare di essere all’altezza del compito, non sapendo peraltro, in quanto vergine anche lui, “dove mettere le mani”, per usare la bella eufemistica espressione di Donato De Bonis.
    Poi, perché ritengo che le donne ne potessero sapere in materia anche più degli uomini, perché sicuramente nelle frequentazioni fra di loro, con le vicine di casa, si saranno raccontate, non escluso anche nei minimi dettagli, cosa avviene nella prima notte di matrimonio, e successivamente.
    La mia esperienza personale mi ha dato motivo di rendermi conto che le donne, fin da piccole, fossero edotte già di tutto, ed a volte anche più disinibite dei maschietti, nei quali, in qualche caso, ho visto in faccia davvero cosa fosse il pudore.
    Una prova viene addotta, del resto, nelle testimonianze raccolte dal Feo, là dove Antonietta Pacella ricorda che uno sposo, Giovanni S., nella prima notte si è visto “vrancisciato la faccia” dalla moglie, per non essere stato egli pronto a soddisfarla, a causa di una fattura di R.P.
    Da questo episodio si evince che qualcosa da temere ce l’avevano anche gli sposi, e se non proprio la “vrancisciata sulla faccia, almeno l’onore su di essa, che è ancora peggio. Immaginate come possa essersi sentito Luigi Bevilacqua, marito di Marietta Feo, quando la notte delle nozze, avvertendo l’impotenza, effetto della fattura fatta anche a lui dalla solita R.P. - che aveva deciso di farsi “una risa” - comincia a bestemmiare dicendo: -“Ammo fatto u cavallo corridore. Era meglio ca non mi sposavo, se non ero buono”, ed il mattino dopo, recatosi da sua madre, la esorta di andare a dire a Marietta che non ci vuole più ritornare, che preferisce morire.
    Infine, non si può non prendere atto, con tristezza, della scomparsa di questa usanza plurisecolare - effetto “dell’ineluttabile omologante avanzare del progresso capitalistico”, per usare le parole del Feo - che costituiva una manifestazione di affetto ed onore nello stesso tempo per gli sposi, un motivo supplementare di partecipazione gioiosa al matrimonio, evento, questo, straordinario nella vita di tutti, soprattutto della sposa, che per un giorno, quale che fosse la sua estrazione sociale, veniva a rivestire il ruolo di prima attrice protagonista, ammirata da tutto il paese.
    E, se a conclusione della giornata, nel momento di doversi recare nella nuova casa, scoppiava a piangere, forse più che un pianto di paura, sarà stato un pianto di intensa commozione, perché finiva irreversibilmente una fase della sua vita, quella con la sua famiglia d’origine, e cominciava quella con la nuova famiglia che concorreva ad andare a formare lei, scandita da una grande festa, che purtroppo volgeva al termine.
    Al giorno d’oggi gli sposi trascorrono la prima notte lontani da casa, partendo essi il giorno stesso del matrimonio in viaggio di nozze.
    Ma, anche se gli sposi non partissero per la luna di miele,  non sussisterebbero nemmeno più tutte le ragioni di siffatta vigilanza: perché  le camere da letto raramente sono esposte a pian terreno sulla strada; perché, comunque, le porte e le finestre proteggono maggiormente la privacy; perché i “cantari” (io ricordavo però che a Banzi si chiamassero “pris”, avendo sentito non di rado, nei confronti di qualcuno, quando fosse inerte e d’ingombro, esclamare per l’irritazione: “e no’ sta’ cum’ a nu pris!”) non esistono più; perché è venuto meno il motivo per cui gli sposi, nel passato, potevano essere oggetto di curiosità, in quanto la prima volta è avvenuta già chissà quanto tempo prima della prima notte da marito e moglie; infine, forse anche perché c’è meno coinvolgimento emotivo nell’evento del matrimonio.
    Rimangono ora a ricordare le nozze, insulsi foglietti attaccati in giro sui pali (per la verità non a Banzi, forse perché si sa che i carabinieri interverrebbero prontamente ad elevare un verbale d’infrazione) con su scritti “Tizio e Caia oggi sposi”, e qualche scherzo goliardico di amici, consistente in carta igienica che avvolge la macchina degli sposi, od in barattoli legati dietro.
    Della “guardia agli sposi” - quella presunta della nonna, o quella realmente esistita - rimane solamente la traccia che Feo lascia in una rivista che andrà a giacere depositata e dimenticata in qualche prestigioso scaffale di università e che qui ho inteso concorrere a salvare dall’oblio.
    Eccola, e buona lettura!

LA GUARDIA AGLI SPOSI
di Michele Feo
Università di Firenze

Alla cara memoria
di Giovan Battista Bronzini e Scevola Mariotti

    Una silloge di 71 componimenti poetici della tarda latinità, messa insieme verisimilmente negli ambienti dell'aristocrazia romana legati a Simmaco, si è salvata perché conservata in un codice del monastero di San Colombano a Bobbio; scoperta del 1493 dall'umanista Giorgio Galbiate, che vi aveva fatto una spedizione di ricerca per conto dei duchi di Milano, poi per secoli nuovamente scomparsa all'attenzione, è stata ritrovata da Augusto Campana in una copia umanistica posseduta dalla Biblioteca Vaticana (cod. Vat. Lat. 2836), La prima edizione critica dell'intero gruppo, che va ora sotto il nome di Epigrammata Bobiensia, è stata fatta nel 1956 dal grande filologo classico Franco Munari; ad essa ne è seguita una seconda nel 1963 nella prestigiosa «Bibliotheca Teubneriana».l Numerosi sono stati gli interventi critici di studiosi di varia nazionalità, volti alla spiegazione e alla ricostruzione del testo, spesso corrotto e inintelligibile. Fra tutti spiccano per acutezza di ingegno e per completezza del quadro quelli di Scevola Mariotti, un altro grande classi- cista, che ci ha lasciato nei primi giorni del 2000, noto ai liceali d'Italia come autore di un vocabolario latino di successo.2
    Ritornando sull'interpretazione di EB 36 dopo precedenti interventi del 1956 e del 1962,3 il Mariotti si era posto il quesito se in esso non si annidasse un'allusione a un costume tradizionale di cui tracce sarebbero reperibili ancora ai giorni nostri. Metodicamente il problema è più che legittimo. Basterebbe il Satiricon di Petronio con la sua ricchezza di ritualità e credenze a dimostrare quanto fertile di risultati possa essere la lettura antropologica dei classici. Ma veniamo a BR 36. Una strana Penelope in veste di eroide ovidiana scrive (probabilmente ad Ulisse lontano) per raccontargli un amore consumato in sogno. Per facilitare la comprensione della complicata questione riporto di seguito la traduzione italiana di Mariotti.

    Non toccata dai proci e casta per tanti anni
    (i miei baci li conosce appena lo stesso Telemaco),
    per questo la verginità mi ha giocato nei tuoi confronti con fiamme ardenti
    e nella sovrana sola è divampato un amore sincero.
5  Spesso, donna inesperta, ho tremato per falsi sogni
    e mi sono uscite dalla bocca parole sconvenienti.
    E anche sveglia ho provato pene sconosciute,
    e senza scoprire in me un segno del piacere ho tastato il letto con mano tremante,
    perché a te anelante, che movevi il supremo attacco,
l0 ha ceduto, arrendevole e senza parole, il mio amore.
    Non ho osato ferirti con denti crudeli o con unghie,
    perché l'amore ha stretto tra noi un patto con silenziosa pace.
    Al fine non ho invocato con grida di paura l'ancella (?),
    né la vecchia schiava, prima nell'ossequio, è accorsa.
15Io ho messo mano alla lettera, pallida di vergogna,
    confessando il peso che grava sul verginale pudore.

    In un passaggio difficile del suo discorso, al v. 13, Penelope menziona qualcosa che nella tradizione è forse corrotto:           
    denique non aviam trepido clamore vocavi.

    La parola chiave del nostro problema è aviam, la nonna. Questa lezione aviam è testimoniata da due stampe quattrocentesche del componimento, fatte a ridosso della scoperta bobbiese. Ma il manoscritto Vaticano al posto di aviam legge animam, che è impossibile per metro e per senso. Privilegiando il manoscritto sulle stampe, e quindi partendo da animam, Mariotti, in un primo momento ritenne di correggere questa parola in Triviam, cioè Diana, la dea della castità; poi sembrò invece ben disposto verso un'altra correzione famulam, l'ancella (e su questa correzione ha condotto la traduzione sopra riportata). Ma un altro studioso, il tedesco Paul Maas, fin dal 1957 gli scrisse per difendere la sensatezza della lezione aviam. Diceva Maas: «lo non mi azzardo a respingere aviam; ho sentito dire una volta che in Italia ragazze che si sposano molto giovani tengono nella prima notte di nozze una parente anziana nelle vicinanze, per trovar riparo, se necessario, da uno sposo troppo impetuoso» [mia traduzione dal tedesco]. L'opinione di Maas fu confermata da un altro studioso acerbamente scomparso, il latinista pugliese Vincenzo Tandoi, il quale ebbe a dire che l'usanza era ancora viva trent'anni prima in Lu- cania e in alcune zone arretrate della Puglia; ma non era chiaro per Tandoi se si trattasse di una parente o di una amica non illibata.    
    Agli inizi dell'estate 1996 l'amico Mariotti si rivolse al sottoscritto, come meridionale e curioso di tradizioni popolari, per chiedergli se avesse contezza della presunta tradizione. In un viaggio in Lucania a fine luglio di quell'anno ebbi occasione di intervistare parenti e conoscenti. Risultò che tutti conoscevano la tradizione di far la guardia agli sposi nella prima notte di nozze, ma non si trovò traccia di quello che premeva a Mariotti e su cui avevano testimoniato Maas e T andoi: ossia che guardiana fosse una vecchia parente della sposa e che essa avesse la funzione di soccorrere la sposa contro il fresco marito maldestro e violento (per una presunta eccezione vd. l'ultimo paragrafo del presente lavoro). L'articolo di Mariotti, in cui è anche un cenno alla ricerca da me fatta, con l'augurio che essa venisse pubblicata indipendentemente dai risultati portati al suo problema filologico, è intanto uscito a stampa: De Penelope (Epigr. Bob. 36), in Synodia. Studia Humanitatis Antonio Garzya septuagenario ab amicis atque discipulis dicata, a cura di U. Criscuolo e R. Maisano, Napoli 1997, pp. 645-646 n. 22; ed è stata poi ristampata (alle pp. 260- 270) nei magnifici e imponenti Scritti di fiilologia classica, Roma 2000, preparati dall'Autore stesso, ma portati alla pubblicazione dagli allievi Mario De Nonno e Leopoldo Gamberale.
    Sospetto, con tutto il rispetto per uomini di tanto ingegno, che Maas e Tandoi abbiano frainteso o forzato notizie vaghe e malcerte per sentito dire (il sentito dire è dichiarato onestamente da Maas), e propendo a credere che la guardia della nonna non sia mai esistita; e a una convinzione non diversa deve essere giunto Mariotti, se ha fmito per non accogliere il suggerimento di mantenere aviam e ha proposto, sia pure senza troppa convinzione, la nuova congettura famulam.
    Se posso esprimere di passaggio il mio parere sul testo latino, personalmente ritengo giusta la difesa di aviam, anche se non per le ragioni addotte dal Maas. Credo che animam del manoscritto Vaticano,sia proprio una cattiva lettura di aviam, anzi auiam, del perduto Bobbiese. E probabile che auiam fosse scritto avia con un trattino sovrapposto, che fungeva da segno di compendio per la 'm' finale. Ora, se quel segno sovrapposto fosse stato interpre-tato non come sostituto della m finale, bensì come segno di un compendio più energico per un'altra, intera, parola, e se la lettera u fosse stata letta come n (scambio paleografico frequentissimo), ecco che tutta la parola auiam diventa anima. Da anima ad animam il passaggio è inavvertitamente imposto dalla sintassi.
    Restando fermi alla bontà della lezione aviam, la nonna, si tratta di trovarle un senso. Non so se esagero nel sovrapporre visioni ed esperienze del mondo contadino che fu, ricordando a chi non lo sapesse che nelle famiglie patriarcali quasi sempre i bambini dormivano con la nonna. All'ombra maestosa della nonna parla l'adulto Carducci attraversando la Maremma per rievocare il racconto della novella di lei che cerca il suo perduto amor. Nel lettone comune, al buio e tra il dormiveglia, mia nonna raccontava a noi nipotini le sue novelle. La celebre canzone napoletana Maria Mari, più nota come ai Mari (1899), opera del ciabattino poeta Vincenzo Russo, è un vero e proprio paraclausíthyron povero; nella seconda strofa l'innamorato stando di notte in mezzo alla via dichiara che la bella dorme accanto alla nonna («'a nonna a fianco a te»). Siccome a sedici anni le fanciulle di un tempo erano già accasate con figli, la Maria di Napoli ancora nubile doveva essere quasi una bambina e perciò bene le stava accanto la nonna. L'invocazione alla nonna di una ragazzina poteva essere non molto diversa dalle esclamazioni generiche «Mamma mia!» e «Madonna!», che escono dalla bocca di tutti gli italiani di ogni sesso, età e credenze, in presenza di pericolo o sorpresa generica. Probabilmente la nostra Penelope vuol dire che si è abbandonata agli eventi del sogno poco casto, senza invocare la nonna o altre persone, come invece avrebbe fatto una ragazzina intatta che si fosse trovata in quella situazione, perché ormai lei non era né ragazzina né alle prime armi. 
    I risultati della ricerca furono ordinati, datati 3 agosto 1996 e messi sotto il moggio. In occasione di un altro e più recente viaggio a Banzi, nel giugno del 2002, ho sottoposto le vecchie interviste a controllo dei protagonisti, tranne che a Francesca Padula intanto morta, e ho potuto interrogare e conversare con altri straordinari personaggi, purtroppo questa volta senza registratore. Queste nuove fonti hanno arricchito il quadro, lumeggiando aspetti e fornendo particolari insospettati, ma non hanno fornito elementi per dare una risposta diversa alla originaria domanda di Mariotti. 

    La mia ricerca demologica non ha portato dunque nessun contributo all'intelligenza della lettera di Penelope. Ma, come ho accennato, essa sembrò a Mariotti degna di essere resa nota, al di là dell'intento che l'aveva occasionata. La pubblico per il suo valore documentario, come piccolo recupero di uno di quei tratti di civiltà contadina che, stabili per secoli, sono stati repentinamente di- strutti dal progresso capitalistico e dal suo ineluttabile omologante avanzare. 
    La tradizione non è del tutto sconosciuta agli studi, che si riportano tutti ad aree meridionali (4). Ma meriterebbe di essere indagata più a fondo. I luoghi della mia indagine (Banzi, Genzano di Lucania, Gravina in Puglia) sono angoli di mondo sperduti ai confini della Lucania e della Puglia: paesi poverissimi, dove le uniche attività erano la coltivazione della terra e l'allevamento degli animali. n costume era praticato con regolarità fino a una quarantina di anni fa, ma si può dire che non si è mai spento del tutto. Risulta però che le generazioni acculturate di quarantenni e cinquantenni oggi non la conoscano e nemmeno ne abbiano sentito parlare. 

    Quando gli sposi si ritiravano nel talamo, alcune persone assicuravano la loro presenza nelle vicinanze durante tutta la notte. Lo scopo era quello di difendere gli sposi - tutti e due, sia chiaro, e non la sola donna - da scherzi malevoli e pesanti. Questi per così dire scherzi potevano consistere nel bloccare la porta di casa con un'asse messa in croce o nel depositare dietro di essa oggetti vari, quali coma di animali, un pupazzo, un pietrone, una carogna di animale e persino il contenuto di càntari (monumentali vasi da notte). La prima notte di nozze è costellata in tutta l'area europea da ritualità e pratiche, spesso poco gentili, come lo charivari. Ma la natura e la fenomenologia della guardia non si intendono fuori di una società urbanisticamente caratterizzata. Le operazioni fatte di notte dietro la porta presuppongono infatti paesi con case basse fornite di solo piano terra, e al massimo di un ulteriore primo piano rialzato; tutta la casa nuziale consisteva di una sola stanza con ingresso diretto sulla strada. Sic- ché, accostandosi all'uscio, malintenzionati o amici indiscreti potevano origliare da vicino, lanciare fescennini e disturbare variamente. Erano scherzi feroci quanto le burle rinascimentali e potevano provocare risse e sangue; non erano graditi dalla stessa società che li praticava e li manteneva in vita. 
    Ernesto de Martino ha voluto costringere l'usanza ad assumere un significato magico. Ma l'ha fatto a mio avviso abusivamente, forzando il significato di un termine, che in alcuni racconti dei protagonisti qualifica il costume: u strite. Per de Martino strt'te o stride è «un complotto magico teso agli sposi per disturbare la prima notte». Ma, per quanto io so del mio dialetto nativo (e anche del pugliese), strtae non significa complotto e tanto meno complotto magico, bensì dispetto grave, atto di spregio, azione offensiva e distruttiva in- tesa a provocare un danno diretto alla persona o indiretto alle cose, per odio o rancore o vendetta o malanimo o semplicemente per insensata cattiveria e stupidità: per es. è uno stride uccidere a qualcuno un animale, tagliargli piante, rovinargli un oggetto caro e sim. (in alcuni dei racconti da me raccolti l'azione contro gli sposi viene definita 'scherzo', per sottolineare il suo aspetto ludico, ma non offensivo; per intenderci: portare il cantaro è uno stride, ma mettere la mazza in croce è uno scherzo). Inoltre tutti i miei intervistati escludono che la guardia si facesse contro azioni magiche; le fatture potevano esserci, ma erano fatte precedentemente e in altra sede, e contro di esse la guardia delle nozze non poteva più niente. D'altro canto chi faceva il dispetto non interferiva nella consumazione del matrimonio; le conseguenze dello stride erano quelle che potevano vedersi pubblicamente la mattina seguente, quando la casa degli sposi appariva esposta al sorriso o al ludibrio per la presenza di oggetti scherzosi o pesantemente allusivi, li risultato più sicuro dell'indagine è l'accertamento di una coscienza della sacrosantità dell'istituto matrimoniale e della necessità di difenderlo da aggressioni esterne che ne potrebbero sgretolare la solidità e il prestigio sociale, Le interviste del 1996 furono da me riassunte, per evitare prolissità e ripetizioni inutili. Ritenni però di riportare più fedelmente le due più significative, quelle di Marietta Feo e di Francesca Padula. Queste due donne, le più anziane fra le persone allora interrogate, straordinarie nella loro semplicità, si esprimono con grande efficacia. Marietta, che ha anche il dono della sinteticità narrativa (ma il suo discorso purtroppo è stato solo parzialmente registrato su nastro), è un archivio antropologico vivente. Ai miei lettori, che probabilmente appartengono alla cultura illuministica e progressiva cui io stesso appartengo, lettori che probabilmente guardano alla conoscenza come a fatto nobile e poco tinto di emozioni, mi corre l'obbligo di spiegare che quanto mi è stato detto mi è stato detto con sincerità e senza occultamenti, ma sempre con qualche turbamento. Ho avvertito sempre negli intervistati la coscienza che le domande che ponevo erano indiscrete e forse eticamente non proponibili. I parenti e gli amici mi hanno risposto per una serie di strane ragioni: la fiducia nella mia persona, visto un po' come l'intellettuale di famiglia, vissuto lontano e sostanzialmente ritenuto corretto e disinteressato; l'avermi molti di loro visto bambino e il desiderio di compiacermi e persino quello di non provocare mie critiche alla loro 'barbarie'. La disponibilità degli estranei è stata propiziata da loro amici e parenti stretti, e ancora una volta agevolata dalla mia qualifica professionale. Ma nell'esposizione di un particolare un vecchio si è arrestato fmché una donna nubile presente non è uscita dalla stanza: «Agg' a piglia la terra e me l'agg' a scittà mbacce», ha commentato davanti alla possibilità di arrecare offesa all'onore della ragazza. E da tenere presente che in queste interviste i risultati possono essere condizionati dall'abilità delle domande, proprio come accadeva negli interrogatori della Santa Inquisizione. A tratti io stesso ho avvertito che l'incalzare delle domande e la loro 'suggestività' avevano qualcosa di inquisitoriale: accadeva infatti che, sotto la pressione delle domande l'intervistato cedesse qualcosa delle sue ferme convinzioni e si affacciasse a possibilità che prima aveva negato. Ma bastava attenuare la tensione e, dopo qualche divagazione, riprendere il precedente problema con calma che nell'interrogato tornavano salde le certezze prima vacillanti. 
    Un ultimo sfuggente quid che ho percepito a tratti nitidamente era il costituirsi di una certa complicità esoterica fra il detentore della verità e il ricercatore. Non so fino a che punto la vanità di esser messi per scritto compenserà in qualcuno di quegli uomini e di quelle donne il peccato di violazione del pudore. I più di loro avrebbero preferito l'anonimato. 

INTERVISTE DEL 1996 
(rivedute nel 2002)5

Antonietta Pacella, sp. Renna, n. e attualmente vivente a Banzi (Potenza) dopo essere stata per vari anni a Torino; intervistata in auto tra Banzi e Gravina in Puglia (Bari) il 30 luglio 1996. 

    A domanda se esistesse a sua conoscenza l'uso di fare la guardia al talamo, risponde prima di no (per fraintendimento della domanda), poi conferma e si diffonde in particolari. A suo parere la guardia si faceva da uomini, uno per la sposa e uno per lo sposo; esclude che si facesse da donne. Lo scopo era di proteggere da azioni di dispetto, collocazione di oggetti e cose del genere. 
    A domanda insistita se poteva essere una protezione per la sposa da eccessiva aggressività o violenza da parte del marito, è visibilmente in imbarazzo, ma nega la cosa. La domanda tuttavia scatena ricordi di violenze coniugali: ricorda che a metà degli anni cinquanta andò sposa una figlia di Giuseppe R. (un parente di suo marito) e che nella notte di nozze la donna fu aggredita dallo sposo; a domanda perché ciò sia avvenuto, fornisce due spiegazioni possibili: o che gli avessero fatto la fattura (s'intende al marito, rendendolo non compos sui), o che avesse scoperto la moglie non illibata. Lo sposo tentò di accoltellare la donna, mentre ancora gli invitati erano nella sala da ballo. I rispettivi genitori erano a fare la guardia. La sposa urlò e gli uomini di guardia sfondarono la porta. Da allora la coppia non ha avuto bene. Questo racconto non riesce tuttavia a indurre la Pacella a dichiarare che la vigilanza alla porta nuziale avesse per scopo la protezione della sposa dalla violenza dello sposo.         Aggiro la domanda: avveniva che la sposa, prima di ritirarsi con lo sposo, venisse rassicurata da qualcuno a non temere violenze, perché era protetta? Risponde diffondendosi sull'ignoranza totale delle ragazze di altri tempi in questioni sessuali e matrimoniali, anche in normali cose fisiologiche, e ricordando che le donne più anziane durante le fatiche dei campi si divertivano a spaventarle raccontando cose terribili sulle nozze; ma è decisa nel no alla domanda. 

    Vittoria Renna, vedo Calogero, n. a Banzi il 26 luglio 1931; intervistata il 30 luglio 1996 a Gravina in Puglia (Bari), dove vive da oltre trent'anni. E presente Antonietta Pacella, che interviene spesso. 
    La Renna conferma che nella notte delle nozze, nelle vicinanze, ma a di- stanza di discrezione, c'erano un familiare dello sposo e uno della sposa; a do- manda se erano maschi e femmine, risponde decisamente «uomini»; mai sentito dire della presenza di donne. Lo facevano per difendere gli sposi da quelli che mettevano coma di animali dietro la porta insinuando che il marito era cornuto, o per allontanare gente che volesse origliare, o per impedire che andassero a gettare dietro la porta il contenuto del cantaro. L'usanza esisteva ancora negli anni cinquanta. Per lei stessa nel 1954 fecero la guardia (probabilmente il fratello). Ricorda che qualche anno dopo (1955 o '56) hanno messo le coma a una sua conoscente. 
    Ripropongo la domanda già fatta alla Pacella, se le spose venissero rassicurate a non temere violenze da parte del marito nella prima notte. La Renna con- ferma il no della Pacella. Tutte e due le donne spiegano poi che non c'era bi- sogno di dare informazioni o assicurazioni sulla vigilanza, perché «si sapeva». 
    La Pacella racconta che a un tizio (Giovanni S.) hanno fatto la fattura la prima notte. Secondo le due donne è accaduto che lei volesse e che lui dor- misse; allora lei lo ha aggredito e gli ha «vrancisciato la faccia».6 Successivamente hanno identificato l'autrice della fattura in RP., una donna di Banzi in fama di fattucchiera, e l 'hanno indotta a toglierla col dono di ciammellini.7 

    Angela, giovane figlia della Renna presente all'intervista, tira fuori un libro del gravinese Franco Amodio, Santa Dunella vestita di nero..., Venosa 1994, dedicato alle tradizioni popolari di Gravina. Lo scorro, ma al capitolo sul matrimonio non trovo quello che cerco. Riconosco in Amodio un mio vecchio compagno di liceo di cui non sapevo più nulla. Interrompo l'intervista, lo rintraccio per telefono e gli faccio domande sulla veglia agli sposi. Neanche a lui risultano le due cose che cerco: né l'attestazione di una guardia fatta da donne, né l'idea che la guardia fosse una protezione della sposa; a sua opinione la guardia era una difesa della sacralità dell'istituto matrimoniale e non della sposa. 

    In una conversazione con vari presenti, che segue all'intervista alla Renna, affermo che, se fosse dimostrato l'intento di difendere la sposa attraverso la sorveglianza, si accerterebbe l'esistenza di una antica coscienza contadina che la sessualità maschile può degenerare in violenza e che occorre da essa proteggere la donna. L'osservazione non trova risonanza alcuna. Le due donne Renna e Pacella insistono nel dire che la protezione era contro esterni, «o anche protezione della sposa».8 

    Lucia Ciola, sp. Renna, di anni 69, n. a Genzano di Lucania (Potenza), intervistata il 30 luglio 1996 a Gravina in Puglia, dove vive da una quindicina di anni. 
    Prima dice di conoscere l'usanza per averne appreso l'esistenza durante gli anni in cui è vissuta con la famiglia presso Altamura (Bari): «stasera cuggìneme non si ritira, stanno a sorvegliare la zita».9 Poi ammette spontaneamente che l'usanza esisteva anche a Genzano. La guardia era rivolta contro chi vo- lesse andare a molestare gli sposi. Era fatta da un parente da parte della sposa e uno da parte dello sposo.

    Interviene il marito Vito Renna, n. a Banzi, per precisare i dispetti: cantaro depositato o vuotato dietro la porta, sigillo imposto alla porta. 

    Alfredo Feo, n. a Banzi nel 1930 e vissuto molti anni nello Schwarzwald, in Germania; intervistato da solo a Banzi il 31 luglio 1996; <la revisione è avvenuta l'Il giugno 2002, alla presenza della moglie Maria Nicola e della figlia
Rosa>.. 
    Dopo l'ultimo ballo (tarantella) gli sposi venivano accompagnati alla loro casa, poteva esserci una serenata, quindi restava solo qualche parente stretto, fratello dello sposo o della sposa, che vigilavano fino al mattino per evitare che si facessero scherzi, come bussare alla porta, o gettare oggetti. Erano esclusivamente uomini. Lui stesso ha visto uomini fare la guardia.         Racconta della propria moglie Maria Nicola che dopo le nozze non voleva secondo la consuetudine uscire di casa e, costretta da lui ad andare di sera a cena dai genitori, si copriva la testa con lo scialle.
    <Maria Nicola alla lettura del passo interviene per ricordare che il mattino dopo la sua prima notte di nozze, alle quattro, una donna vicina di casa andando a lavoro ha bussato alla sua porta e ha detto: «Iè fatte iurne»,10 che vuol dire «Alzatevi». Maria Nicola ha riconosciuto la voce e ha riposto al saluto dicendo: «Zia Vincinzella!» A domanda se fosse usuale andare a dare il buon giorno agli sposi, risponde di no e attribuisce quell'evento al caso>.

    Maria Cancellara, di anni 73, n. il7 dicembre 1923 e vivente a Genzano di Lucania; intervistata nella sua casa a Genzano il  1° agosto 1996. 
    E' imbarazzata, perché crede di dover raccontare la propria notte di nozze. Tuttavia dà notizie su alcuni usi: la suocera che porta il caffé la mattina dopo; le prove della verginità presentate alla suocera; la sposa che non esce di casa per vergogna per una settimana (la 'settimana della vergogna'). 
    Sulla questione specifica della vigilanza dice di ricordare (cose che ormai non esistono più) che si diceva che i suoceri e altri stavano dietro la porta degli sposi per intervenire nel caso ci fossero state questioni fra gli sposi. Ricorda anche che a qualcuno tempo addietro (35-40 anni fa) è stata fatta la fattura e che per questo è rimasto per una settimana senza combinar nulla; poi la madre ha chiamato persona abile a sfare la fattura. 
    Interviene Alfredo Feo, presente, per informare che tale fattura fu fatta a suo zio Luigi Bevilacqua e che per questo egli andò digiuno (o liscio) due o tre giorni. Interviene Raffaele Giordano, n. a Banzi il7 dicembre 1949, genero della Cancellara, ragioniere, per dire che la tradizione di fare scherzi agli sposi è ripresa in anni recenti e che lui stesso ha partecipato di uno scherzo colossale fatto a sposi incauti dagli amici, i quali sono entrati nella loro casa e l'hanno conciata in modo che quelli hanno poi dovuto faticare tutta la notte per renderla agibile. Altri presenti ricordano antichi scherzi che si facevano agli sposi sprovveduti prima che essi entrassero nel talamo. lo stesso ricordo di aver sentito parlare di quello di cospargere le lenzuola di zucchero. 

    Marietta Feo, vedo Bevilacqua, n. a Banzi (Potenza) il 20 giugno 1916, dove è sempre vissuta e tuttora vive; è stata fin dalla gioVinezza di carattere ribelle ma nei rapporti fra i sessi fedelissima al suo mondo; nel dopoguerra accesa comunista; intervistata il Io agosto 1996;<l'intervista è stata verificata, confermata parola per parola e integrata qua e là il 10 giugno 2002 da una Marietta che alla bella età di 86 anni è più vispa e lucida che mai>

    A domanda se ricorda che intorno al talamo si aggirassero persone nella notte delle nozze, risponde: «Hai voglia!». 
    «A quale scopo?», risponde: «Per impedire che mettessero la mazza in croce», cioè che qualcuno per dispetto bloccasse con una spranga la porta del- la camera impedendo l'uscita degli sposi la mattina dopo. 
    Ricorda, per sentito raccontare da sua nonna, che a un tale che aveva avuto la nominata che la moglie non era buona 11 posero nella notte un pupazzo dietro la porta. Altro tipo di dispetto da cui gli «attendenti» difendevano gli sposi era la collocazione di coma dietro la porta.12 
    Precisa che gli attendenti erano parenti, «gente costretta».13 Erano uomini. A domanda insistita se poteva darsi che qualche volta ci fossero donne, risponde quasi stizzita: «Che avinna a fà le femmine? Erano uomini, perché le donne non andavano girando di notte».14 Al suo matrimonio sono stati a vegliare i parenti del marito. 
    A domanda se si facevano magie contro gli sposi, Marietta risponde con un lungo e dettagliato racconto della fattura fatta proprio contro suo marito Luigi 15 (è l'episodio già ricordato da Alfredo Feo) e di come poi egli ne sia stato liberato. La fattura fu fatta da R.P.,16 vicina di casa della suocera. Prima delle nozze la fattucchiera (anzi, nella forma dialettale bantina, fattucchiara) si era rivolta alla madre dello sposo: 
    «Zia Rosa, quando si sposa Luigi?». 
    «Sabato». 
    «M'aggio a fà una risa». 
    Alla fine della festa lo sposo comanda il ballo. Ma Luigi era già 'attaccato': 
    «Io non comando». 
    Gli dicono: «Quando vi volete ritirare...». 
    Vanno a letto («Ci cuccammo»). Lui dice alla moglie:
    «Vogliamo contare i soldi?». E cominciò a bestemmiare: 
    «Ammo fatto u cavallo corridore.17 Era meglio ca non mi sposavo, se non ero buono». 
    La mattina andò dalla mamma: «Madonna, lo stomaco!».
    <La mamma: «Che hai?». E lui: «Andate a dirlo a Marietta che non ci vado più. Agg' a muri a come mi sento»>.
    La madre riconobbe la fattura della commare R. Andò a Genzano da altra fattucchiara; questa le diede un unguento da ungere tutto il corpo, con la raccomandazione di stare lontano dalla moglie. La giovane moglie si vergognava di ungerlo e lo unse la madre<per tre sere>. 
    Marietta ricorda anche un'altra fattura: la commare Francesca R. fu caricata di mazzate dal marito, perché gli avevano fatto la fattura.18 Marietta fornisce anche particolari sull'esecuzione delle fatture,19 e commenta che i maghi moderni sono degli imbroglioni che fanno solo per far soldi. Riportata al senso della guardia nella notte nuziale, dice che erano guardiani che guardavano la zita.2O 
    <Al secondo incontro, provocata, Marietta è generosa di particolari sulla storia e sulla persona di R.P., pur mostrandosi turbata dalla prospettiva che queste notizie vengano propalate. Per la precisione non la preoccupa che ven- gano divulgate lontano, ma trova disdicevole che girino scritte nd paese. R.P., morta già all'epoca della prima intervista, accreditava lei stessa la nomea di fattucchiara; aveva raccontato infatti di aver comprato un chilo di carne e di essere andata nd bosco di notte, a mezzanotte; aveva acceso il fuoco ed arrostito la carne; mentre la mangiava, bestemmiava i santi a uno a uno, «prima li pigliava da nnante e po da dreto»; quindi era andata alla porta della chiesa, li aveva trovato una capra, le era montato sopra e la capra la portava altare per altare e lei bestemmiava i santi a uno a uno, prima li pigliava davanti e poi di dietro. Secondo Giudittella, la madre di Marietta, erano tutte fandonie e non sapeva fare nulla. Marietta commenta di suo che, se l'ha fatto, ora sta all'in- ferno. «Ma le fatture le faceva. Le ha fatte anche alla figlia, quando si è sposata, al genero gli attaccò il sangue la notte delle nozze». Quando morì a Potenza, «abbottò tutta», cioè si gonfiò, al punto che non entrava nella bara, da quanti peccati doveva pagare, e dovettero schiacciarla. 
    Interrogata, distingue rigorosamente fattucchiara da masciàra (maga) e da belle donne. La fattucchiara faceva le fatture, legava il sangue; la maga entrava nelle case e guastava le persone. Le belle donne erano invece esseri sovrannaturali che provocavano eventi strani e facevano dispetti: p. es. potevano tagliare le vesti; Marietta ricorda il caso della sua piccola bambina che dormiva fra lei e il marito improvvisamente scomparsa e ritrovata sotto il letto>. 

    Francesca Padula, n. a Banzi il 2 giugno 1903, qui sempre vissuta e morta il 14 aprile 1999; <è stata testimone di Geova> ; intervistata il3 agosto 1996 nella casa della figlia Saveria. Sono presenti la figlia Saveria, il marito di Saveria, e Domenico Renna (marito di Antonietta Pacella). Trascrizione da nastro con italianizzazione del dialetto. 

    «Zia Francesca Padula, quanti anni avete?». 
    Francesca: «Novantatré». 
    «E dove siete nata?». 
    Francesca: «A Banzi». 
    «A Banzi. Siete rimasta sempre a Banzi?». 
    Francesca: «Qui siamo nati, qui siamo cresciuti. E qui abbiamo a morire».
     «Be', speriamo che avvenga sempre più tardi». 
    Francesca: «Ehhh, siamo fatti vecchi, che amm'a campà?». 
    «Ma state ancora molto bene». 
    Francesca: «hhh!». 
    «Senti, zia commare, vi voglio fare delle domande...». 
    Francesca: «Dimmi». 
    «Delle domande sugli usi di matrimonio, sulle tradizioni, come si svolgevano certe cose nel matrimonio. Mi dovete scusare se sembrerò indiscreto, ma non è per sapere né i fatti vostri né i fatti degli altri; è una questione di studio. Quello che voglio sapere è questo: quando si era fatta la festa degli sposi, dopo che si era fatto il ballo, il pranzo, i ciambellini e tutto il resto...».     
    Francesca: «... dopo gli sposi si ritiravano alla casa coi suoni appresso, che facevano la serenata, e i familiari andavano ad accompagnarli tutti alla casa dello sposo, e dopo rimanevano loro in pace, la famiglia se ne andava, il padre dello sposo e il padre della sposa stavano a guardare...». 
    «Nelle vicinanze della strada». 
    Francesca: «Nelle vicinanze della strada». 
    «E perché stavano a guardare?».
    Francesca: «Eh... p' i stride,21 che poi gli andavano a mettere la mazza in croce [ride]..., ca mo' gli andavano... e non sai? Tutto questo». 
    «Ma...». 
    Francesca: «Eh, si facevano scherzi ai tempi di prima... Be', sposava una zita, quando andavano a ritirarla,22 andavano i compagni dello sposo, andava- no a mettere la mazza in croce alla porta, la mattina non gli facevano aprire la porta. Eh questo è il fatto che andavano a guardarli i genitori». 
    «Vi ricordate voi di averle viste queste persone che stavano vicino alla strada a guardare gli sposi?.. Non vi ricordate?».         Saveria: «Non li hai mai visti?». 
    Francesca: «A chi?». 
    Saveria: «A quelli che guardavano i ziti». 
    Francesca: «Ho visto quando sono sposati i familiari nostri». 
    Saveria: «E va bene, li hai visti che...». 
    Francesca: «Ho visto quando si è sposato lo zio Peppino con Rosina Cena, quando siete sposati voi...». 
    «Quando è sposato lo zio Peppino l'hanno fatto?». 
    Saveria: «Eh sì, sì, si faceva...» 
    Francesca: «Sì». 
    «Per esempio, quando è sposata mamma mia l'hanno fatto?». 
Francesca: «Tutti, a tutti... Eh figurati il nonn023 non andava a guardare la porta alla figlia! [ride]». 
    «E quando siete sposata voi, l'hanno fatto pure a voi?». 
    Francesca: «Be', io.. quando sono sposata io, non c'è stata cerimonia a me. Noi ci siamo presi a braccetto e ce ne siamo andati [ride]. Abbiamo fatto una cosa fra noi due e niente più». 
    «Io però non riesco a capire cosa facevano queste persone nella strada. Per esempio, erano solo uomini o potevano esserci anche delle donne?». 
    Francesca [scandalizzata]: «No, le donne no». 
    «Perché le donne no?». 
    Francesca: «Eh, per i compagni, per lo sposo... Non è che facevano... Per non farli uscire la mattina presto, aprire la porta, andavano a mettere la mazza in croce, ma le donne no». 
    Saveria: «Non li facevano fare per paura che qualcuno..., guardavano che nessuno andasse dietro la porta ad ascoltare...».     
    Francesca: «L 'hanno fatto pure ad Antonio nostro [ride]». 
    Saveria: «Sì, a mio figlio, quando è sposato. E allora stava alla casa della nonna. La prima notte di matrimonio l'hanno fatta a casa della nonna, perché dovevano partire per Genova, e sono rimasti là». 
    «Questo in che anno è avvenuto?». 
    Saveria: «Che anno? Sono ventidue anni fa». 
    «E gli hanno fatto gli scherzi?». 
    Saveria: «Sì, hanno fatto gli scherzi. Hanno detto: facciamo come si usava prima. Sono andati là e hanno messo un pisco 24 grosso con una mazza in croce, così non potevano aprire la mattina. Non si usava più, così hanno detto: facciamo come facevano gli antichi. E hanno fatto questo scherzo». 
    «Ma facevano pure le magie dietro la porta?» 
    Saveria: «Le magie chi le ha fatte, le facevano quando andavano alla chiesa. Dice che le maciare li attaccavano per non farli unire l'un l'altro. [ll marito dà segno di contraddirla in qualcosa]. O dio, quando siamo sposati noi si facevano. Ti ricordi commà R.P., che l'ha fatto alla figlia... Si facevano». 
    «Saveria, quando ti sei sposata?» 
    Saveria: «li '48». 
    «Quindi il '48 ti ricordi che esistevano queste cose?» 
    Saveria: «Sì sì, anche dopo». 
    «Però i parenti dietro la porta nella prima notte nuziale contro le magie non potevano fare niente». 
    Saveria: «Ma allora le magie non c'erano più. Queste cose sono esistite fino a non ha molto, che li facevano questa legatura agli sposi per non farli accoppiare, fino a quando è morta commà R.P .». 
    «Eppure tu sei sicura che mai una donna stava a guardare la porta». Saveria: «No no, solo gli uomini andavano a guardare. L 'ho inteso, ché io non li ho visti. Andavano gli uomini da lontano, non è che andavano a mettersi dietro la porta. Da lontano guardavano che non andasse qualcuno dietro la porta degli sposi...». 
    «Poteva capitare che nella notte delle nozze gli sposi litigassero fra di loro... Per esempio che lo sposo era troppo violento, che aggrediva la sposa...». 
    Saveria: «Ma queste cose dicevano sempre che erano cose di magia». 
    «Ma nel caso in cui per esempio il marito picchiava la moglie nella notte delle nozze potevano intervenire le persone che stavano a guardare nella strada?» 
    Saveria: «Queste cose non le ho mai sentite. Quelli certamente non aprivano. Se se le davano, se le davano fra di loro [ride]. E chi aveva a intervenire? Stavano chiusi dal di dentro! Prima ci tenevano di più, diciamo, alla verginità, chi non la trovavano vergine la uccidevano, la facevano, la davano,25 la cacciavano. Tutte queste cose succedevano prima». 
    «Esatto, esatto. Ma queste persone che stavano fuori, stavano anche per intervenire ad impedire cose di questo genere?
    Saveria: «Può darsi pure». 
    «... cioè che il marito era violento...». 
    Saveria: «Può darsi che lo facevano pure sotto quello scopo... ma chi lo sa? Nessuno...». 
    Interviene Domenico Renna: «Sì, ma non potevano entrare perché erano chiusi da dietro, dentro...». 
    Saveria: «Può darsi pure che, diciamo, si sentiva bussare, loro la smette- vano. Però nessuno l'ha...». 
    Domenico: «Vedi, è successo il caso di Peppino D., con Francesca. La notte Peppino l'ha lisciato il pelo, perché la fattura gliel'avevano fatta R.P. e quello l'ha caricata di mazzate»!6 
    «Chi è Peppino?» Domenico: «Uno qua vicino... Allora il padre della moglie, Giuseppe R., dietro la porta voleva entrare, non poteva entrare, quelli avevano chiuso da dentro». 
    «Chi avevano chiuso da dietro?». 
    Domenico: «Gli sposi! L'attàne27 della zita non poteva entrare dentro, perché era chiuso la porta da dietro». 
    «Ma la sposa ha chiamato aiuto?». 
    Saveria: «No no no. Che volevano chiamare aiuto? Ché quelli mica lo sapevano che uno stava lì a guardare. Erano tutti segretamente che andavano da lontano a guardare...».
     «Ecco, proprio questo vorrei sapere, se possiamo pensare che gli sposi sapevano che c'erano delle persone in mezzo alla strada e in caso di bisogno la sposa poteva chiedere aiuto a questi parenti». 
    Saveria: «Può darsi pure, e chi lo sa? Prima insomma non c'era questa cosa. Erano più severi. Può darsi pure che era per questo fatto che li guardavano. Perché guai se succedeva che era successo una cosa prima, diciamo non era stato lui,28 come è successo ad Oppido, l'ha uccisa. Succedevano pure così...». 
    «Non viene fuori niente di certo... [fra me e me]. Insomma, voi avete no- tizia di qualche sposa che è stata bastonata dal marito e che ha chiesto aiuto alle persone che guardavano, al parente che stava fuori?». 
    Saveria: «No, no proprio, il fatto di chiedere aiuto no. Il fatto che è successo così che si sono picchiati, diciamo, c'è proprio questa, questa Francesca che è una parente vostra.29 E successo che dice che tenevano questa legatura di sangue,30 l'aveva legati questa fattucchiera, quello che era. Però non sappiamo se era proprio perché gli aveva fatto la fattura o era perché così gli era venuto in capo a lui. Chi lo sa come è successo? Chi può sapere le cose proprio personali a uno che succedono?».
...
    Domenico: «Abbiamo la stessa età, come mi ricordo io si ricorda lei». 
    «Insomma tu escludi che le persone che stavano fuori della porta poteva- no essere non una protezione contro...».                 Domenico: «No, è la protezione di fuori, della gente che non andassero a molestare, che non andassero a cimentare -più in dialetto ». 
    «Esatto, ma io voglio sapere se queste persone potevano essere una pro tezione anche per la sposa contro lo sposo».         Domenico: «Ma questo...». 
    Saveria: «Può darsi pure...». 
    Domenico: «Ma questo non si pensava a quel fatto, perché si sapeva che se questi si sono sposati si vogliono bene, si sono voluti bene, no? allora che c'era bisogno di andare a guardare la sposa ancora 31 lo sposo l'allisciava il pelo, diciamo così in dialetto va... non si pensava. Anche io sono andato, quando è sposato Vituccio,32 ho fatto io dietro la porta, ma che pensavo forse ancora Vituccio sfregava33 la moglie? No, io l'ho fatto per... ancora persone di fuori andavano a dare fastidio...                  Saveria: «... che qualcuno... pure di andare a dire qualche parola brutta dietro la porta...». 
    «Allora, un'altra domanda: voi sapete che la madre o una sorella o una donna anziana diceva qualcosa alla sposa prima di ritirarsi con lo sposo?». 
    Saveria: «Sempre sentito, però a me non mi ha detto niente nessuno. Mamma a me non ha detto mai niente. E chi lo sa che li dice? Perché prima la sposa, pure io, non sapevo niente. Non sapevo neanche che vuol dire...». 


INTERVISTE DEL 2002 

    Angela Rigato n. a Banzi il 28 otto 1927, scuola elementare fino alla terza classe, sempre vissuta a Banzi, casalinga; sposata nel 1954, quattro figli; inter- vistata il 13 giugno 2002 alla presenza del marito Domenico Nino. 

    A domanda se ricorda la guardia agli sposi, risponde di sì. Fuori, per strada, stazionavano persone che guardavano gli sposi, erano parenti dello sposo e della sposa, parenti «costretti», fratelli, compari, anche amici, il padre no. 
    Alla domanda cosa facessero precisamente, descrive una situazione di festa (in tale forma non altrimenti testimoniata): stavano fuori, cantavano, ballavano, cimentavano (cioè sfottevano, s'intende affettuosamente) gli sposi, tuppulavano (bussavano) alla porta, scherzavano. Pure serenate, con un organetto. 
    Perché stavano dietro alla porta? Risponde: «La gioia, la gioia che erano sposati>. 
    Stavano tutta la notte? Risponde: «Pure fino alle tre». 
    C'erano anche delle donne? Risponde: «Sì, qualcuna, per gioco, qualcuna meno seria». 
    Ricorda di stride agli sposi e quali? Risponde: «Sì. Per disprezzare. Met- tevano un muciaccio dietro la porta, per dire che ti sei sposata un muciaccio». A domanda precisa che il muciaccio è un fantoccio di pezza e stracci, tipo la Quarantana a carnevale. «Mettevano l'uva spina -ma non per disprezzo, per amore, un regalo alla sposa perché non poteva uscire per sette giorni (la settimana santa o della vergognanza), all'ottavo andava in chiesa alla messa vesti- ta di nero; prima poteva uscire solo di sera per andare dai parenti». 
    La guardia aveva lo scopo di difendere la sposa dalla violenza dello sposo? Risposta: «Forse, è possibile. Perché c'erano matrimoni preceduti da liti e dissensi>. Non sa se a lei sia stata fatta la guardia. 
    A domanda se i guardiani dovevano controllare ancora i due se le davano (che i due non avessero a picchiarsi), chiede meravigliata: «Perché se le dovevano dare?» Alla citazione di casi in cui la sposa poteva scoprirsi non illibata, non sa cosa rispondere. Ricorda che si diceva: «Amm' a scì a guardà i zite». La guardia la facevano a tutte due gli sposi.34 

    Domenico Nino, n. a Banzi 1'8 setto 1925, vissuto sempre a Banzi, bracciante agricolo. Molto riservato, è presente all'intervista alla moglie, senza contestare alcunché. Ricorda che, quando si è sposato, sua madre gli ha fatto un abitino (cioè uno scapolare) e glielo ha attaccato al collo, evidentemente per proteggerlo da fatture. 

    Margherita Fumarola, sp. Franculli; n. a Banzi il4 ago 1928, vissuta sem- pre a Banzi; scuola fino alla terza media; casalinga; di famiglia benestante; intervistata il 13 giu. 2002 insieme con Giuseppina Carcuro. 
    La guardia agli sposi, a sua conoscenza, si faceva. La facevano i suoceri, il padre, i fratelli e altri familiari intimi. 
    Ricorda un episodio occorso a Angela P., una taverniera estroversa e allegra, madre di un figlio epilettico. Quando si è sposata, era ignara e aveva paura del marito. Ha detto all'uomo di prenderle un ciammellino; quando lui è salito sul solaro (cioè sul soppalco di legno), è fuggita di casa; ma fuori ha trovato il suocero e il padre che l'hanno bloccata e indotta a rientrare. (Evidentemente non sapeva della guardia e non si aspettava di trovare i guardiani). 

    Giuseppina Carcuro, n. a Banzi il 27 otto 1930, insegnante elementare, donna colta e anticonformista; ha studiato a Matera e poi è rimasta sempre a Banzi. 

    Conferma che la guardia si faceva e che la facevano i parenti. Racconta preliminarmente, per far capire la temperie culturale, un episodio occorso durante una festa di matrimonio di cui è stata testimone come invitata, a Genzano. Verso le dieci di sera la sposa comincia a intristirsi; a mezzanotte comincia a piangere dirottamente e ad aggrapparsi alla madre; pian piano l'hanno consolata ed è andata via in lacrime con lo sposo. 
    A domanda perché si facesse la guardia risponde: «Perché la libertà era condizionata». 
    Interviene la Fumarola, rincalzando che i matrimoni erano condizionati e contrattati dalle famiglie; a suo parere «rimaneva la paura di andare a letto con uno sconosciuto», laddove «quando c'è l'amore uno non capisce niente più». Domanda: Chi aveva paura, l'uomo o la donna? Risposta: «La donna, la donna! Mica scappa l'uomo! La donna!» 
    A domanda se la guardia aveva lo scopo di proteggere la donna, ambedue le intervistate rispondono di sì, sicurissime di sì.     
    Domanda: Proteggere dunque la sposa dallo sposo? Risposta: «No! Era una protezione del matrimonio, dell'onore. Si uccidevano per l'onore». 
    Domanda: Si può ipotizzare un marito violento? Risposta: «No, no! C'era solo, nella prima notte, il timore del primo incontro». 
    Le due intervistate escludono recisamente che la guardia fosse fatta da donne. 
    Infne la Carcuro ricorda un episodio del 1963: a Genzano si sposò la cameriera del fratello; era una brava donna, ma povera; la suocera non la gradiva per le sue condizioni economiche e per dispetto nella prima notte appese qualcosa al portone, un maleficio, per cui il giovane per tre o quattro sere non poté combinare niente; finché non fu scoperta e rimossa la causa. 

    Michele Rigato, n. a Banzi nel 1912; produttore e venditore ambulante di carbonella per i paesi; emigrato a Bologna dove vive; autore di ampi ricordi manoscritti [ora pubblicati da Canio Franculli con tit. E così fu. Attraverso il Novecento} ricordi per l'Italia di oggi, Possidente 2003]. Intervistato per telefono da casa Franculli il 13 giugno 2002. Durante l'intervista si inserisce vigorosamente la moglie Antonietta Palermo, n. a Banzi, casalinga, di anni 82, scuola fino alla quinta elementare.         Michele afferma la realtà della guardia, conferma che fosse fatta da parenti stretti. A domanda perché ciò avvenisse, spiega che delle volte portavano qualcosa di male dietro la porta, buttavano cantari, facevano stride, e che per- ciò i parenti stazionavano con paròccole.35 Divaga volentieri con racconti di aneddoti e sogni simbolici. 
    Prende la parola la signora Antonietta, per fare una perorazione fiume in difesa della assoluta correttezza morale delle sue nozze. Stretta al tema, sostiene che, essendo il primo rapporto delicato, c'era il timore che la donna fuggisse per tornare da sua madre, oppure che qualcosa andasse male; costretta a spiegare meglio il pensiero, dice che il padre e gli altri vigilavano acché non succedesse qualcosa di male. A domanda: qualcosa di male a chi? risponde: «Qualcosa che poteva danneggiare la donna».36 
    A domanda se a fare la guardia potevano esserci donne Michele e Anto- nietta rispondono singolarmente e concordemente no, non l'hanno mai sentito dire, e non è cosa normale. 

    Michele Palma, n. a Banzi il6 maggio 1905, è il più vecchio degli intervistati; mestieri: arte di mazza,37 a salario per una ventina d'anni, quattro anni di guerra, poi agricoltore e pastore. Narratore pacato di grandi doti, è un protagonista della tesi di laurea di Rosa Nino, La lingua dei pastori di Banzi, Università di Bari a. acc. 1989-90. Intervistato il 13 giugno 2002. Come le donne colte Carcuro e Fumarola, tende a rispondere con il racconto di fatti esemplari, traendo da essi la defInizione e forse la legittimazione delle norme di comportamento. 
    Fa un lungo e minuzioso racconto delle costumanze matrimoniali a Banzi. Nei tempi della gioventù si andava a scuola a sette anni compiuti; maschi e femmine erano seduti in banchi separati; c'era un solo maestro dalla prima alla quinta elementare. Durante i ragionamenti dell'avvicinamento era sempre il guaglione che si innamorava della menenna; poi venivano a saperlo il padre e la madre per via di masciate (ambasciate) e si combinava il matrimonio. Lui è stato attaccato al matrimonio (cioè fidanzato) per tre anni con la defunta moglie Maria Domenica Nino. Si faceva festa con suoni e balli di allegria. Finita la festa gli sposi andavano a dormire. Qualche volta per qualche sospetto (perché gli scostumati, gli imbecilli ci sono sempre stati) qualcuno si metteva vicino alla camera degli sposi, ancora qualche malintenzionato andava a fare dispetti. Erano parenti dello sposo e della sposa. Stavano lì tutta la notte. I dispetti erano -non ricorda quando è venuta la fogna -quello di gettare die- tro la porta un vaso da notte o mettere un animale morto. La mattina dopo la mamma dello sposo portava il caffè agli sposi e voleva vedere il danno (cioè la prova della verginità). 
    A domanda se donne potevano fare la guardia risponde: «No, donne no, sicurissimo». 
    A domanda se la guardia si può interpretare come una difesa della donna, risponde con il racconto di un caso occorso a Banzi, che tuttavia «non si può avverare» (cioè non si può dimostrare), perché chi lo conta in un modo e chi in un altro. In una notte di nozze sono arrivati a mazzate (non vuole dire i nomi, ma si tratta del caso raccontato da Antonietta Pacella e da Domenico Renna). Aggiunge che in occasione di un matrimonio nella casa di fronte un tizio di Spinazzola ebbe a collocare una fila di pietre davanti alla porta degli sposi. Tornando sui dispetti alla fine dell'intervista, Michele spiegherà che gli autori potevano essere vecchi liti, cioè precedenti fidanzati o pretendenti rifiutati. 
    Per lui la guardia era una difesa dell'uomo e della donna. A suo parere le donne arrivavano al matrimonio consapevoli, non si può dire che fossero ignare. Racconta quindi la storia già raccontata da Margherita Fumarola, quella di Angela F., sposata a Luigi P., avvenuta prima che lui nascesse: la sposa chiede il ciammellino, lo sposo sale, lei toglie la scala e scappa; lui salta giù e l'afferra per i Cim. 
    Al suo matrimonio fecero la guardia un fratello dello sposo e uno della sposa. Torno a porre la domanda sulla protezione della sposa. Michele risponde trasversalmente con due lunghi racconti. Uno è quello di una sorella di suo padre, donna bella, che quando ha sposato il suo uomo è stata oggetto di una fattura con vino bianco, che l'ha portata alla morte (della fattucchiara rivela anche il nome, F. D. L.). L'altro riguarda una sua sorella, sposata nel 1937: per effetto di fattura il primo bambino rifiuta la poppa e muore; nel 1940 nasce una figlia e anch'essa muore in condizioni simili. n marito allora cacciò la donna, che fu accolta e curata dai genitori. 

    Donato De Bonis, n. a Banzi il 1926; personaggio sanguigno e franco, partecipò alla sommossa del 1950; ha trascorso 21 anni in Germania senza imparare la lingua. Intervistato il 13 giugno 2002 con la moglie Lucia Muscio, n. a Genzano e vissuta a Banzi, presenti il figlio Domenico, architetto comunale, e Rosa Nino, laureata in Dialettologia, ambedue ora per la prima volta venuti a conoscenza della tradizione della guardia.

    Comincia Lucia: «Tanne38 si guardavano i ziti. Per difendere gli sposi da- gli stridi stavano in attesa i familiari. Li guardavano pure tutta la notte. Quando sposai io...». 
    Interviene bruscamente Donato che, seccato, tronca il riferimento personale e prende in mano il racconto: «Si usava così. Gli sposi non si conoscevano. Lo sposo non toccava la fidanzata, non le dava un bacio, c'era la verginità, tutti e due. La prima notte aVveniva che l'uomo si trovava una donna a sua disposizione, non sapeva dove mettere le mani. Allora qualche filabustiere erano curiosi di andare dietro la porta, la mascatura 39 era grossa [ne mostra una antica], e da questo buco la gente andava ad annusolare4° e poi si veniva sa- pendo. Se lo sposo aveva detto alla sposa «madonna, quanto sì bella!», la mattina dopo si sapeva. Allora hanno inventato la guardia. I giovani arrivavano al matrimonio oscuri di tutto, le donne ancora di più, non sapevano niente». 
    Racconta quindi della prova di verginità da presentare alla suocera. 
    Interrogato sugli stride, dice che erano coma ecc., posti da un fidanzato respinto. Lucia interviene per raccontare che, quando lei era già zita con Do- nato, una conoscente si adoprò per indurla a rompere il fidanzamento. Lo stride era una vendetta o un danneggiamento al matrimonio. 
    Chiedo se la guardia aveva lo scopo di proteggere la donna, e ottengo ancora risposta negativa. Donato è deciso nell' affermare che la guardia doveva garantire il rispetto degli sposi. 
    Faccio un lungo ragionamento secondo questo filo di logica: la donna era nella società di cui si sta parlando elemento più debole, quindi andava protetta o tenuta sotto tutela, per esempio dal padre o dai fratelli; se una donna non sposata fosse stata offesa, toccava ai maschi difenderla anche con la forza: dunque prima del matrimonio alla donna era dovuta una 'guardia' da parte degli uomini (gli astanti ammettono che era così). Dopo il matrimonio la donna passava sotto la protezione o tutela o diritto del marito, un altro uomo; ove il marito non fosse stato all'altezza della protezione, potevano intervenire i maschi della famiglia d'origine; dunque alla donna era garantita una 'guardia' nel matrimonio (gli astanti ammettono anche ciò). Chiedo come è possibile pensare che non esistesse un istituto di protezione o guardia o tutela specifica per lei nella transizione dalla prima alla seconda fase, cioè appunto nella prima notte di nozze; e chiedo anche se questa funzione fosse assolta dalla guardia della prima notte, aggiungendo che ciò potrebbe essere testimonianza di una civiltà sensibile alle difficoltà della condizione femminile. Gli intervistati non reagiscono e i due più giovani appaiono estranei al ragionamento. 
    La conversazione continua su temi di fatture, malocchio e corrispondenti antidoti. Si rivela che bastava mettere sotto il letto degli sposi una falce, o forbici, per sventare malefici. Una scopa posta presso la porta stornava l'ingresso delle belle donne, costringendole a contare uno per uno i fili di cui era composta. Si dà notizia di varie fattucchiare di Banzi. Secondo Donato i poteri di una passavano ad altra donna solo in punto di morte: colei che voleva ereditarne i poteri doveva stazionare presso il letto e afferrare con i due pugni chiusi il lenzuolo o le mani della morente nel momento del trapasso. 

LA GUARDIA DELLA NONNA 

    Questa è una storia romanzesca, che non si può raccontare senza dichiarare che ogni riferimento alla realtà è puramente casuale e che nessuno è auto- rizzato a decodificare le sigle del racconto con nomi reali di testimoni e attori di Banzi. Ciò per rispetto di persone viventi che potrebbero scorgere nella filigrana la propria sorte, e che forse per questo motivo non sono volute entrare nella serie delle testimonianze. 
    Immaginiamo allora un giallo di paese che ha all'origine un evento strano e che si dipana tra ipotesi e versioni diversificate, per volgere a una soluzione coerente e logica, anche se forse immaginaria. Come in tutte le storie romanzesche, tutto è nebuloso all'inizio, tutto sembra chiaro alla fine. Ma qui chiaro davvero non è nulla, e tutto è ambiguo. E solo la disposizione processuale dei dati -opera del raccoglitore e dei suoi complici testimoni -che sembra raffigurare alla fine un percorso lineare e fedele alla ragione. La 'verità' vera della storia non sta nella positività dei fatti, ma in quanto essa rivela della sfaccettata psicologia popolare e delle mitologie che l'immaginazione, la superstizione, il dolore e la paura dei singoli e della collettività hanno generato. Con questo avvertimento, mi è parso di non privare i lettori di questa inquietante, allucinata e semi-fantastica appendice. 
    All'inizio ci fu l'interruzione di R. al racconto di M.: la guardia agli sposi esiste ancora oggi, nel 1994 fu guardato fino al mattino il matrimonio di AA! Ma sei anni dopo R. nega di aver detto quel che è depositato su nastro magnetico. Messa alle strette dal ricercatore e dalla figlia presente allora e oggi, ricorda. Aggiunge che quella guardia fu fatta dalla nonna. Finalmente la tanto cercata guardia della nonna! Acquisisco esterrefatto e incredulo la notizia e prego che sia verificata. L'indomani R. e la figlia partono. In tarda mattinata ricevo la visita di M., madre di R., che mi comunica avere sua nipote tentato di raggiungere AA e la nonna ZZ, per procurarmi un appuntamento; ma essere la cosa risultata impossibile, perché la vecchia è in ospedale fuori del paese e la nipote occupata ad accudirla. 
    Poco più tardi riferisco incidentalmente a MN e al marito la strana storia, meravigliato dell'eccezione femminile a tutta la consuetudine come accertata dalla concorde memoria del paese, che esclude la presenza di donne nella guardia agli sposi. I due reagiscono subito rivelando che ZZ è una fattucchiera; e fanno un inventario delle presunte fattucchiere del paese. Precisano poi che le persone in questione vengono da fuori, quasi a dire che in qualche modo sono estranee al vero tessuto sociale del luogo, e che il nonno di AA ha ucciso il fratello.
    Mi trasferisco da MR e racconto la vicenda con 1'accumulo dei dati. MR risponde che la circostanza non è credibile. Però: ZZ è donna energica e coraggiosa, abituata a combattere nella vita, inoltre fisicamente robusta. Ha i peli come fosse un uomo... La conosce personalmente, va ogni pomeriggio in chiesa. Potrebbe incontrarla, ancora ieri girava per il paese. Ma la sera mi riferisce che la donna versa in cattivo stato di salute e non è in condizioni di tenere una conversazione. 
    Il giorno dopo riepilogo la piccola indagine poliziesca alla famiglia NN. Per la figlia ZZ è una pazza. I genitori confermano con ampi dettagli e genealogie che un fratello uccise un fratello. E precisamente il nonno di AA, sposato a ZZ, uccise il fratello, forse per istigazione della moglie; nel 1994, quando è andata a nozze, AA, figlia di una figlia dell'assassino, era orfana di nonno e di padre, e aveva solo la nonna ZZ. 
    La sera incontro la famiglia RR. Confermano che ZZ è fattucchiera e che sa fare le legature di sangue, ottenute con polvere di rospo, vetro macinato e sangue mestruale, che impediscono all'uomo di esercitare la forza virile con la moglie. Ma è possibile che abbia fatto la guardia alla nipote o si deve pensare che sia una fandonia? Rispondono che son cose che non si dicono, ma è vero. 
    La storia viene quindi ricomposta secondo una trama che tiene insieme tutti i pezzi. n fratello uccise il proprio fratello per questioni insorte nella notte di nozze di uno dei due. Essi vivevano nella stessa casa. Quando il secondo si è sposato con ZZ, ha pregato 1'altro, già accasato, di andar via con la moglie per discrezione. Ma la «perfida cognata» si è nascosta dietro un divisorio e la notte ha origliato. Ha scoperto così che ZZ non era andata vergine al matrimonio.. La cosa è diventata di dominio pubblico (e tuttavia gli avvocati della «ottima cognata» contestano le accuse e rovesciano tutte le perfidie su ZZ). Ne è nato un dissapore tra i due fratelli, che è sfociato dopo molti litigi nella tragedia. Siccome ZZ era una volpe, sapeva quel che poteva accadere e per questo molti anni dopo ha guardato la nipote. 
    -«Ma perché non ha mandato un uomo al posto suo?» 
    -«Era una. nottambula e non aveva paura manco dei diavoli». 

RIASSUNTO 

 La ricerca è stata occasionata dal quesito, avanzato dal filologo classico Scevola Mariotti, se sia possibile interpretare un passo degli Epigrammata Bobiensia come testimonianza che in età tardo-antica nella prima notte di nozze la nonna della sposa stazionasse nelle vicinanze del talamo per proteggerla da eventuali eccessi del marito. Allo scopo sono state realizzate varie interviste in paesi della Lucania e della Puglia, in due spedizioni distinte nel tempo. Da esse è risultata con tutta certezza l'esistenza del- l'uso di 'guardare gli sposi' nella prima notte di nozze, cioè di proteggerli da scherzi di amici, e soprattutto da dispetti e spregi offensivi ('stride') di malintenzionati. Ma in nessuno modo è emerso che i protettori fossero donne. La costumanza è stata ben descritta da testimoni anziani, talora con dovizia di particolari. Sono stati stati raccontati episodi di vita vissuta, intrecciati a volte con superstizioni e azioni magiche, e in fine è stata ricostruita una storia oscura di sangue. ______________________________________________________________________________________________
NOTE:
1. Epigrammata Bobiensia, detexit A. CAMPANA, edidit F. MUNARI, vol. II: introduzione ed edi- zione critica a cura di F. Munari, Roma 1955; Epigrammata Bobiensia, edidit W. SPEYER, Lipsiae 1963. Sulla personalità di Campana si possono vedere i volumi di due atti di convegni a lui dedicati: Testimonianze per un Maestro. Ricordo di Augusto Campana, Roma 15-16 dicembre 1995, a cura di R. Avesani, Roma 1997; e Augusto Campana e la Romagna, a cura di A. Cristiani e M. Ricci, Bologna 2002, nonché La biblioteca di uno studioso romagnolo. Annotazioni e divagazioni su alcuni libri di Augusto Campana, a cura di E. Pruccoli e C. Giovannini, Rimini 1999. Di Munari si possiede un bel ritratto scritto da S. TIMPANARO, in «Be1fagor>, LI (1996), pp. 417-446.
2. Anche di Mariotti S. TIMPANARO ha disegnato un magistrale profilo in «Be1fagor», XLVIII (1993), pp. 271-326.
3. Adnotatiunculae ad Epigrammata Bobiensia et Anthologiam Latinam, in «Philologus», C (1956), pp. 324-325; Epigrammata Bobiensia, in RE, Suppl. IX, Stuttgart 1962, pp. 46 e 61-62.
4. E. DE MARTINo, Sud e magia, Milano 1966 (la ed., ivi 1959), p. 19; G.N. MOLFESE, Ceneri di civiltà contadina in Basilicata, Galatina 1978, p. 81; G.B. BRONZINI, Vita tradizionale in Basilicata, Galatina 1987, p. 345.
5 Le aggiunte sono riportate fra parentesi uncinate.
6 Gli ha graffiato il viso con mani e unghie.
7 I ciammellini (ciambellini) sono genericamente dolci nuziali. 
8 La dichiarazione finale è in apparenza un po' sibillina. Ma non credo che essa cambi qualcosa: ho l'impressione che alla fine le donne l'abbiano fatta per sfuggire al mio tallonamento argomentativo. Mi pare certo che quell'o non sia alternativo; insomma le donne vogliono semplicemente dire che la mia domanda è inutile, perché se si proteggevano gli sposi, implicitamente si proteggeva la sposa. 
9 «Stasera mio cugino non rientra a casa, stanno a fare la guardia agli sposi. Sull'interpretazione del termine 'zita' io e mio fratello Francesco, presente all'intervista, per quanto ci resta di rapporto istintuale col nostro dialetto, siamo concordi: esso non indica la persona della sposa, ma è una sorta di sineddoche per 'le nozze' o 'gli sposi'; ciò vale per Banzi, e deve valere anche per Genzano che da Banzi dista il vuoto di un burrone. L'uso ritorna sulla bocca di un'altra intervistata, Marietta Feo (vd. infra). Del resto anche in Toscana si dice 'la sposa' per dire il matrimonio, essendo la sposa l'elemento simbolico e più figuralmente appariscente delle nozze.
10
. È espressione formulare: si ricorderà che È fatto giorno è il titolo di una lirica del lucano Rocco Scotellato, che poi ha dato il titolo a una postuma raccolta, Milano 1954.
11. Cioè: di cui si diceva che la sposa non era andata a nozze illibata. 
12 . <Nel secondo incontro l'episodio delle coma viene riferito a tal Canio D.G., secondo un ricordo di vecchia data, risalente alla nonna di Marietta, Maria Nicola Fratusco>.
13 Cioè legata da vincoli di consanguineità. 
14 È una doppia spiegazione sociologica del perché le donne non avevano parte in questa azione: primo, era una faccenda da uomini, perché azioni difensive, che potevano comportare l'uso della forza fisica, erano normalmente maschili; secondo, era un'operazione che imponeva lo stazionamento notturno per strada e ciò era inconcepibile per donne. 
15. <Luigi fu anche lui comunista; il4 aprile 1950 partecipò insieme ad altri 235 braccianti di Banzi a una sommossa antipadronale, fu arrestato e imprigionato. Su quell'episodio non esistono studi storici; una rievocazione letteraria si deve a Canio FRANCULU, Sotto la torre dell'orologio, in «il foglio», volantino del movimento Prospettiva Democratica del 2 e 15 aprile 1995. Luigi mori giovane sul lavoro. Di lui Marietta conserva ricordi nitidi e teneramente affettuosi. Ora è uscita in una considerazione fra poetica e autoironica che, se c'è qualche cosa da quella parte, Luigi l'aspetta, ma quando si rivedranno chissà come lui la accoglierà, perché lui è giovane, ma lei è vecchia>.
16 È la stessa del racconto di Vittoria Renna.
17 Credo voglia dire: son diventato cavallo da corsa e non da monta. 18 È l'evento già ricordato da Antonietta Pacella e che ritorna nell'intervista che segue con Francesca Padula. 19 La fattucchiara fa i nodi allaccio guardando in faccia la persona che vuole legare; poi va in chiesa e, al momento in cui l'officiante pronuncia Sanctus, cala il laccio nell'acqua santa e risponde tre
volte: «Santùs! Diavolo, attaccami a cusse!». 
20 Per il significato estensivo di 'zita' = gli sposi, vd. sopra, n. 9.
21 Questo termine è sfuggito al dialetto un po' italianizzato degli intervistati più giovani. Su di esso, sul suo significato e su quello che gli attribuisce Emesto de Martino vd. sopra, la premessa. 
22 Cioè: quando l'accompagnavano a casa. 
23 VuoI dire il nonno di me che interrogo.
24 Un masso, un pietrone. 
25 Cioè la picchiavano.
26 <li 12 giugno 2002 Domenico corregge il nome della fattucchiera, sostituendo a RP. un'altra
donna, A.L.; aggiunge che il racconto della fattura nella prima notte era un pretesto: in realtà Fran-
cesca sarebbe stata prima delle nozze deflorata da un altro, esattamente dal cognato della sorella.
Peppino e Francesca dopo molti anni di matrimonio si sono separati; Peppino oggi sostiene che
un figlio nato nel matrimonio non è suo; ma il personaggio è ritenuto generalmente un po' svitato
e inaffidabile>.
27 attàne = padre.
28 Intendi: guai se accadeva che si scoprisse che prima del matrimonio c'era stato un rapporto,
che la verginità era stata presa da altri che il marito.
29 Allude alla storia della figlia di Giuseppe R
30 Cioè la fattura.
31 ancora = per paura che.
32 Viro è un fratello maggiore, il marito di Lucia Ciola.
33 Cioè: potevo forse pensare: sarà mai che Vito bastoni la moglie?
34 Suppongo che la contraddizione fra la descrizione della guardia festosa di cui all'inizio e quella che affiora dalle ultime battute si spieghi con una sovrapposizione di qualche episodio di gioiosità paesana di anni recenti su un diverso costume arcaico.
35 Sono bastoni nodosi usati come arma.
36 Mi è parso di cogliere nei discorsi delle tre ultime donne una notevole autocoscienza delle condizione femminile, che si intreccia tuttavia inestricabilmente con l'ancoraggio saldo alle tradizioni. Esse sono le più acculturate fra le intervistate, ma è curioso che tendano a deprezzare o occultare il fatto. Antonietta, pur dichiarando di avere solo la quinta elementare, usa un fervore del discorso il termine 'tabu'. Margherita ha affermato di avere la quinta elementare, mentre ha frequentato la terza media senza conseguire la licenza.
 37. Cioè guardiano di vacche e altri animali.
38 Allora, a quei tempi. 
39 La serratura. 
40 Origliare.

14 novembre 2004 

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