TRA TERRA, MARE E CIELO

 

Quando, nel giugno scorso, giunto con mia moglie al mare, ci siamo accomodati sul terrazzo per consumare il nostro primo pranzo, l'accoglienza delle cicale è stata davvero festosa: dagli ulivi, dai pini, dagli eucalipti, dai cipressi esse ci raggiungevano  coi loro versi appassionati, cercando ognuna di superare l'altra per farsi udire meglio: quel coro, congiunto alla vista del mare, e questo a sua volta al cielo, avvinti in un azzurro che sfumava dal terso allo smeraldo, mi hanno fatto sentire frastornato di non poco intensa emozione!

Quella schiera invisibile di cicale, mimetizzata tra gli alberi, tuttavia non era salita lì per attendere il nostro arrivo e darci il benvenuto, non stava cantando per noi, bensì per attrarre le loro compagne femmine, congiungersi a loro ed adempiere all'imperativo naturale della procreazione. E, poverine, avevano atteso circa quattro anni sotto terra, prima di spiccare il volo sugli alberi e riuscire a vedere la luce ed il cielo.

Ma a me piace immaginare che esse stessero cantando anche per conto mio, per la mia felicità: del resto il suono dei loro versi si propagava nell'aria giungendo nelle orecchie di chiunque, e non c'era nulla di male se essi, oltre a richiamare le loro compagne per l'accoppiamento, facessero piacere anche a me. A ben considerare il canto delle cicale assomiglia alla luce del sole: ce n'è per tutti e chiunque vuole godersela lo può  fare.

Quelle cicale, se non ho potuto vederle mentre dispiegavano il loro canto tra gli alberi, non poche ne ho visto in riva al mare, prive di vita, non saprei dire se maschie o femmine, che si siano lasciate andare dopo aver eseguita la fecondazione, o deposto le uova al sicuro.

Mi è venuto spontaneo raccoglierne una e, a ringraziamento del suo bel canto generoso, l'ho lanciato in acqua: dondolando a galla, ho visto che ha preso il largo, invece di ritornare a riva, rimanendone sollevato all'idea che non finisse calpestata dai bagnanti, ma che il mare, preso da sentimenti di riconoscimento e pietà, ne cullasse le spoglie tra le sue onde.

 

Oltre alle cicale, c'era anche Mustafà che, in un certo senso, cantava anch'egli: però non tra gli alberi, bensì in riva al mare: "Li custumi! Li custumi!" era il verso monotono (come quelli delle cicale) che emetteva. I costumi li trasportava in abbondanza sopra un carretto artigianale, che quanta fatica richiedeva per essere spinto sul bagnasciuga: lo dico con cognizione di causa, perché gli ho chiesto di farmi provare a smuoverlo, ma non ci sono riuscito neppure di un millimetro.

Mustafà mi ha concesso la sua amicizia: a dire il vero tutti i marocchini erano diventati miei amici, perché sembravo uno di loro per il colore acquisito, sicché veniva spontaneo fare battute con me ed io con loro. Infatti, quando Mustafà gridava "Li custumi! Li custumi!", io, avvicinandomi al carretto come fossi il suo capo, aggiungevo "pagati dui e prendeti uni!". 

Lo slogan funzionava, perché più di qualche bagnante, abituata alle offerte dei supermercati, veniva sparata a prendere due costumi, convinta di pagarne uno. Allora, io ero costretto a spiegare che, invece, ne dovevano prendere uno e pagarlo per due. Così, suscitando un po' di ilarità e simpatia, Mustafà forse ha venduto (anche per merito mio) qualche costume in più. In ogni caso, almeno tre glieli ha comperato mia moglie: non chiedetemi però, per favore, di mostrarveli qua, caso mai anche addosso a lei: vi basti la mia assicurazione, erano davvero molto belli addosso a mia moglie, o almeno lei li rendeva tali.

Diverse volte ho invitato Mustafà a correggere la sua espressione, ad italianizzarla in "I costumi! I costumi!". Ma a lui veniva naturale esclamare così. E forse non aveva torto, perché talvolta, volgendo noi stessi italiani espressioni dialettali nella lingua nazionale, non facciamo bella figura.

Mi ricordo, infatti, che una mia parente non lontana, per italianizzare la parola "fazz'lett'", la tradcesse in "faccioletto": per fortuna che la sua interlocutrice non era meno analfabeta di lei!

Ma neppure io posso vantarmi di non essere mai inciampato in siffatte traduzioni. Infatti, mi ricordo ancora quando in prima elementare, facendoci comporre la maestra dei pensierini, giunto il mio turno, mi invitò a farlo con la parola "mamma": a me venne spontaneo dire: "Mia mamma oggi è andata fuori", italianizzando con l'ultima parola quella dialettale "for'". La maestra capì il significato della mia frase e mi corresse con un amorevole sorriso: "non si dice "fuori", mi fece osservare, si dice "campagna", quindi la frase giusta è: "Mia mamma oggi è andata in campagna" ... quanto sarebbe bello se lo fosse andata per davvero!

Altrettanta attenzione bisogna prestare anche quando si mettono per iscritto le parole ... in centomila sensi. Io, però, rimanendo ancora in ambito scolastico, qui voglio fare riferimento solo alla traduzione per iscritto nel dettato. Lessi una volta una pagina di dettato di mia figlia Elena in seconda elementare e mi venne da sorridere leggendo una frase scritta così: "L'arruota gira".

Intuendone la ragione, volli avere conferma da mia figlia, sicché le chiesi: "Elena, oggi a scuola hai avuto una maestra supplente?". Lei mi rispose di sì, e ciò mi bastò, perché non ebbi bisogno di chiederle se era siciliana: da come aveva eseguito il dettato la mia bambina, la maestra supplente era siciliana al 100% e parlava il siculo da madrelingua.

 

Ho cercato di divagare un po' con le cicale e Mustafà, perché l'ultimo periodo è stato attraversato da eventi di grande tristezza e dolore per la scomparsa di persone care, ciò che diventa motivo di profonde riflessioni, non ultima anche quella, pratica, di come smaltire "il rifiuto" di sé stessi che rimane a fine esistenza.

Per quanto mi riguarda, ho dato disposizioni di smaltire mediante cremazione il rifiuto che rimarrà dopo essere cessata la mia vita, con dispersione delle ceneri in qualche località di Varese: Sacro Monte, Campo dei Fiori. Non mi dispiacerebbe essere buttato neppure a mare, dove io vi lanciai quella cicala, e sulla cui riva Mustafà nell'estate del 2008 gridava "Li custumi! Li custumi!", aggiungendo io "Pagati dui e prendeti uni!".

Ho commesso una grave dimenticanza, nonché mancanza di riguardo nei suoi confronti: non gli ho fatto neppure una foto ricordo! Quasi quasi, invece di andare a compiere quell'inchiesta che mi ero ripromesso a Banzi, a settembre ritorno ancora al mare: che gioia se dovessi incontrarlo un'altra volta! Vi prometto che, se anche voi doveste ritornare a leggere questa pagina a fine settembre, trovereste la foto di Mustafà: sareste contenti?

Ma finire in quel mare sarebbe bello anche perché lì provai la gioia di prendere in braccio le mie pronipotine, anzi stranipotine gemelle Luisa e Letizia e giocare in acqua insieme, ammirandone la loro felicità, il loro stupore nel fargli ascoltare le cicale. Qualche giorno addietro la loro mamma Antonella me le ha fatte salutare al telefono ed io, rievocando qualche ricordo dicevo: "Luisa, ricordi come facevano le cicale? Facevano j j j j j j j", e poi, "Letizia, ricordi come facevano le cicale? Facevano j j j j j j j". Loro mi rispondevano appena con un "Ah", che secondo me voleva anche significare: "Ma zio, perché non sei qua con noi?".

Se c'è qualcuno capace di spiegarglielo, per favore lo faccia.

06 agosto 2008

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