ERA BELLA LA SERA

    Ho fatto di recente ancora una scoperta riguardante l'attenzione rivolta alle mie poesie da parte di persone affatto sconosciute, non potendo risalire alla loro identità tramite i nickname usati. La casuale scoperta è avvenuta in un sito di un'associazione culturale, denominato http://www.athenamillennium.it/, nel cui forum di letteratura italiana e straniera ho visto apparire le mie poesie "Ma io sono", "Era bella la sera", "Vorrei prenderti in braccio", contenuta questa nella raccolta "Una madre", postate da due membri iscritti con i nickname "cate60" e "rezgit" (chi fosse curioso di vedere la pagina del forum di cui trattasi clicchi qua).
    Il piacere e l'emozione di ritrovarmi a sorpresa inserito in siti internet sono sempre tanti, ma questa volta sono stati anche un po' di più perché le poesie inserite appartengono a tre diversi filoni d'ispirazione, segno quindi che riesco a far condividere le mie sensazioni ai lettori in ogni ambito espressivo.
    Le poesie sono come tante creature da me generate, come dei figli, sicché se mi si chiedesse quali di esse mi piacciano di più, mi riuscirebbe difficile dirlo. Tuttavia, leggendole talvolta (sia pure raramente a dire il vero), non posso negare che qualcuna di esse mi emozioni più di altre: è questo ad esempio il caso di "Era bella la sera".
    La sera ha ispirato tanti grandi poeti, basti citare Foscolo (Alla sera), Pascoli (La mia sera) e Rainer Maria Rilke (Viene adagio la sera), ed anch'io, modestamente, non ho potuto sottrarmi, rimanere indifferente alla sua suggestione, la quale permea anche altre mie poesie, in particolare "Il mago della sera" e "Arriva la sera".

   Voglio ora qui intrattenermi ancora sulla sera, per ricordare, anche in prosa, quanto fosse bella quella che si trascorreva a Banzi all'epoca della mia infanzia.
    Quando arrivava la sera, le nostre case sembravano raccogliersi più strette le une alle altre, quasi a proteggersi dal buio che le avvolgeva, rischiarate da fioche luci, una volta irradiate da candele e lumi, poi da lampadine.
    Le strade erano invece buie, almeno quella mia, d'inverno ancora di più perché le porte delle case erano tutte sigillate. Il buio, tuttavia, non era come quello che vedremmo adesso noi, se all'improvviso venisse a mancare la corrente elettrica. Una volta si era abituati a muoversi con disinvoltura, anche quando non ci fossero luna e stelle in cielo, soprattutto se si andava a passare davanti alla casa di chi ti faceva sospirare (per portare una serenata, od anche solo per percepirne l'emanazione della sua anima), ma anche se, come qualcuno di mia conoscenza sapevo fare per essermi casualmente ritrovato una sera a casa sua al momento del ritorno con la refurtiva, andava a calarsi nelle vigne altrui per fare razzia d'uva, fichi ed olive.
    La sera, quando giungeva, portava con sé il silenzio, il riposo e la pace. Tutti arrivavamo stanchi: i nostri genitori per le fatiche del giorno, noi figli per quelle dei giochi e dei compiti. Sicché, non si faceva in tempo a consumare la parca cena, che la spossatezza ed il sonno già ci prendevano, e forse nemmeno alle nove si era già tutti a letto a dormire, con conigli, galline e maiale: la gatta era forse l'unico essere vivente della casa a rimanere sveglia. Non esisteva allora la televisione e la radio, ogni rumore si spegneva, non c'erano in circolazione automobili che transitassero per la strada.
    Il sonno te lo conciliava subito il vento che soffiava fuori, forte quando era Borea, che sembrava volesse sospingere le case verso la piazza, se non addirittura "abbasc o'  vaddon'", o come minimo entrarci dentro, per fare su e giù per la canna fumaria, od entrare come uno spirito sibilando attraverso le fessure di porta e finestra: ma non faceva paura, neanche quando s'infuriava. A protezione poi dalle minacce oscure della notte c'erano i cani sparsi per la campagna, che dal buio profondo e lontano facevano giungere i loro latrati.
    Mi sembra di rivivere una di queste sere: ecco nel camino è stato ribaltato il ceppo, grattato il carbone, spento il fuoco, una folata di scintille s'è sollevata, uscita dalla ciminiera è stata risucchiata in alto nel cielo, andando a disperdersi nella Via Lattea e ad alimentarla; con mio fratello Domenico andiamo a letto insieme, mi punta addosso i suoi piedi gelati, non faccio in tempo a protestare, che già cedo al sonno, incurante di qualche torsolo di granturco che sporge dal saccone usato come materasso... me ne sarei accorto solo l'indomani mattina al risveglio per via della lieve dolenzia accusata alla schiena, e
tuttavia come era bello vedere che era fatto ancora giorno, quando scorgevi tua madre intorno al focolare (... non per nulla "E' fatto giorno" è la poesia di Rocco Scotellaro che mi commuove di più)!
    Ma d'estate la sera si animava, tutte le persone si riversavano fuori di casa ed era un tripudio di voci: di noi bambini che scorazzavamo per strada, a rincorrerci, a giocare a "chiappà chiappà", oppure a "nascondino", od a "uno duo tre stelle"; degli adulti, mamme, papà, sorelle, nonni che s'intrattenevano a chiacchierare amabilmente, facendo gruppi qua e là sui marciapiedi lungo le strade. Ed anche in cielo c'era una gran confusione, di stelle, che lo gremivano all'inverosimile, seppure sotto l'indifferenza di noi bambini, che non le degnavamo di alcuna contemplazione, assorbiti come eravamo dal nostro chiasso.
    C'era qualcuno che però le osservava attentamente, uno di essi era il maestro Gerardo Patarino che lo vedevi girare talvolta durante le sere estive con lo sguardo rivolto al cielo, distinguendo ed individuando non solo costellazioni e stelle, ma anche i pianeti di turno.
    Ai comuni mortali era consentito, invece, riuscire a distinguere solo la luna dalle stelle, col dubbio anche di non sapere che essa non fosse una stella, bensì un satellite naturale della Terra. Io, dopo aver imparato ciò, ho appreso anche la formula magica per capire in che fase si trovi la luna, cioè se sia crescente o calante, che è la seguente: "gobba a ponente luna crescente, gobba a levante luna calante".
    Stelle e luna ad un certo punto, in certe sere d'estate rimanevano ad incombere solo su qualche nostro padre, che per vigilare il raccolto, prodotto dalle fatiche di un anno intero -  grano, granturco, orzo, avena - sparso sul marciapiede ad asciugare, rimanevano a dormire fuori. Dubito, tuttavia, che essi non piombassero in un sonno ugualmente profondo, quando i grilli attaccavano a trillare ininterrottamente e dolcemente!
    Accadeva però che talvolta anche fra noi bambini si cominciasse a fare qualche riflessione, a porci qualche domanda sull'universo, la vita, soprattutto quando veniva a mancare qualche persona del vicinato. La convinzione che si aveva era però che la morte non fosse qualcosa d'ineluttabile per tutti, ma che si morisse solo per disgrazie o malattie, ovverosia che si potesse anche rimanere vecchi in eterno. In ogni caso la morte era qualcosa che non ci riguardava perché - ragionavo - se io avevo allora appena sei anni, per arrivare all'età in cui si poteva morire c'era un abisso infinito ancora. Non mi rendevo conto allora di quanto il tempo sia ingannevole, al punto che esso è arrivato a prendersi gioco anche di mio padre alla bellezza di 93 anni e mezzo, e lo vedo già lì davanti che comincia ad irridere anche me.
    Ma, ritornando ancora alla sera, ne voglio rievocare una tra il 1958 ed il 1960 in cui, ritornando da mia sorella Anna, che abitava in una zona periferica del paese, rimasi abbacinato nel vedere per la prima volta accesi i lampioni in via Garibaldi: sembrava fosse ritornato giorno!
    Poi mi piace anche ricordare certe altre sere in cui veniva a farci visita lo zio Nicola. Egli si rivoltava le tasche di giacca e pantaloni in cerca di briciole di tabacco sgretolatesi da mozziconi di sigarette raccattati in giro, le componeva in una sigaretta con un pezzo di carta di quaderno che gli davamo; poi prendeva con le mani dal camino un pezzo di carbone acceso e, facendolo ballare sul loro palmo, accostava ed accendeva la sigaretta, trovando così ispirazione per rallegrarci con i suoi racconti.
    E poi voglio ancora ricordare certe altre sere in cui veniva ad intrattenersi a casa un'amica di mia madre, Annamaria la genzanese, con la quale hanno fatto insieme tanti lavori ai ferri - maglie, maglioni, centrini - raccolte intorno al braciere, sotto una lampadina fioca ma elegante allo stesso tempo, perché appesa ad un filo vestito ed infiocchettato con carta velina dalle mie sorelle, dimora abituale di mosche.
    Infine voglio ricordare certe sere tra la fine di aprile ed il mese di maggio del 1968, quando "un turbamento" mi impediva di prendere sonno, in particolare di una domenica di fine aprile durante la cui notte non riuscii ad addormentarmi affatto.
    Al lunedì mattino mi alzai risoluto sul da farsi. All'epoca non era stata ancora abbattuta la torre campanaria della piazza con la contigua ala di edificio (ecco un'immagine risalente al 1970). Al riparo dalla piazza, mi avviai verso la villa, dove in fondo c'era la fontana, per andare incontro ad una persona che di lì doveva transitare. Infatti comparve, le andai incontro, dicendole che avevo bisogno di parlarle. Lei mi rispose che avremmo potuto farlo il venerdì successivo, durante l'attesa del pullman per ritornare da Palazzo San Gervasio a Banzi.
    Così le sere, anzi le notti successive, riuscii, ma forse solo verso l'alba, ad addormentarmi, cominciando a lambiccare parole per le prime poesie. Eccone due, finora inedite, la prima scritta nella notte del 30 aprile 1968, la seconda il successivo 8 maggio ... dopo quel primo fatidico venerdì:

NOTTE INSONNE

E’ il cuore della notte
e tutto dorme.

Solo il vento
smuove  appena la porta
che cigola sommessamente.

Prorompono improvvisi
i latrati dei cani
i miagolii dei gatti.

Attendo il chiarore del giorno.

 

COME UNO STORMO DI PASSERI

Veglio nella notte
e penetrando con lo sguardo
nella misteriosa oscurità
passo in rassegna
l’espressione del tuo volto
riascolto la tua voce
le parole che mi hai detto
penso quelle che ti dirò io
quando ti rivedrò ancora.

D’improvviso però
un gatto squarcia il silenzio
ed il tuo volto, la tua voce
le parole che mi hai detto tu
quelle che penso di dirti io
come uno stormo di passeri
volano tutti via
smarrendosi nel buio.

    Mi capita ancora di fare fatica ad addormentarmi e, stando sveglio, il pensiero ritorna spesso e volentieri a quelle sere trascorse in anni ormai lontani a Banzi, piene di magia, di sogni, attese e speranze. Assorto nel silenzio, mi pare di udire il vento che strapazza il lampione a cappello di prete appeso in mezzo alla strada e qualche straccio lasciato ad asciugare, raspare le cartacce che si rincorrono per strada, cigolare sommessamente la porta, giungere ancora quei latrati accorati dei cani, che ho preso a prestito per titolare la raccolta delle mie poesie.
    I sogni però sono in via di esaurimento, e comunque stanno diventando diversi.

01 dicembre 2005

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